EDITORIALE DALLA RIVISTA: “PRESBITERI 38” (2004) N. 4
Cari diaconi,
non ci siamo ancora
La rimozione non è solo un meccanismo di difesa del singolo. C’è una psicologia delle masse, dei gruppi, ed anche questi — laici o religiosi che siano —possono reagire di fronte ad eventi conturbanti con una solenne “rimozione “. Quello che succede attorno al diaconato, a nostro parere, offre il fianco ad una simile chiave di lettura. Nato più o meno 2000 anni fa, comprendente all’inizio uomini e donne, riservato poi ai soli maschi, disattivato da più di un millennio, riapparso (e lasciato cadere) nel desiderio del Concilio di Trento, riattivato dal Vaticano Il, quasi sconosciuto ancora oggi nelle chiese non-occidentali, strumentalizzato e non compreso dalle chiese di vecchia cristianità, questo sacramento forse turba più di quanto non serva, e dai pasticci pratici nascono riflessioni teologiche forse elaborate ma incredibilmente contorte e perfino inutili.
Perché nulla cambia. Non è senza significato che il documento della Commissione Teologica Internazionale “Il diaconato evoluzione e prospettive”, Abbia richiesto ben 15 anni di lavoro, e ad oggi, sembra essere caduto nel
vuoto appunto, nessuna novità si pro fila all’orizzonte.
Si può dire che il diaconato abbia fatto parlare di sé fin dal suo nascere. Il celebre passo di Atti 6,1 ss , dove si parla di quei santi uomini che dovrebbero permettere agli apostoli di darsi “alla preghiera e alla predicazione “, sta delineando l’identità dei diaconi?. Pare di sì, ma non è certo.
Se si, abbiamo lì in quei sette , i capi reali della comunità ellenistica con compiti anche dottrinali e direzionali. E se in Fil 1,1 ed in I Tim 3,8 Paolo parla di diaconi, allora quelle persone associate direttamente al vescovo certo con funzioni caritative, ma anche amministrative e pastorali.
Gia nel primo Medioevo tuttavia l’ufficio del diacono scompare come tale, ridotto come è ad un passo temporaneo ed inevitabile verso il sacerdozio.
Cosa indica questa scomparsa se non un restringimento del prete ad una funzione cultuale o amministrativa dove il presbitero basta a se stesso e non ha più bisogno di chi faccia le stesse sue cose ma con meno potere e grazia?
«Ubi major minor cessat». Ma in cosa è «major» il prete rispetto al diacono? Non si sta facendo una grande confusione, sacrificando la diversità di ministero alla gerarchia dell’ordine? Noti si sta perdendo qualcosa per strada, qualcosa di prezioso nella stessa concezione di chiesa e nella natura del messaggio evangelico? Noi riteniamo di sì.
Già agli inizi del secolo VI la chiesa non ha più bisogno di diaconi perché si è accartocciata su se stessa, ha messo da parte molto del primitivo Spirito evangelico e, concentrata come è su «chi deve comandare», e sulla verità da definire e gestire, rimuove chi ricorda che essa nasce dal costato di Cristo-ministro (cioè «servo») e che ai poveri, ai perdenti, ai deragliati è stata destinata. Nessuno dice che l’abolizione del diaconato permanente sia la causa di tutti questi mali. Tutt’altro.
Sono quei mali che espellono il diaconato come non-senso, sul tipo di un matrimonio in frantumi che rende inutile una fede nuziale al dito.
Una Chiesa centrata sulla verità dogmatica e sulla trasmissione di una fede che è assenso alla verità definita, non ha bisogno di diaconi ma di « dottori ». Una Chiesa centrata sul culto sacro e sulla amministrazione dei sacramenti, a rigore, non ha bisogno di diaconi e, se li ha , li piega a chierichetti maggiorati, a lettori qualificati, al massimo a «sostituti ».
Allo stesso modo una Chiesa che nel presbitero accentra ogni potere e funzione, non ha bisogno di diaconi ma di semplici «supplenti »in caso di necessità pastorale.
Così il diacono appare spesso come una specie di prete mancato.
La rimozione però non serve alla salute. Forse impedisce il peggio nel breve periodo. Nel lungo invece, esplode e richiama a che ci si concentri sul problema arcaico, su quel grumo di dolore che ci aveva indotti a non vedere e a non sentire. Porre la questione del diaconato allora è porre il problema della Chiesa. Inseguire una identità del diacono è come volere riafferrare, a quarant’anni dal Concilio, la stessa identità del cristiano. E siccome da che mondo è mondo, alla personalità si preferisce la maschera, ed alle vere soluzioni i rabbrecciamenti, non siamo del tutto sicuri che tutti i cristiani vogliono il diaconato.
Dovrebbero volere una chiesa più evangelica, se stessi più cristiani, gente di fede più matura. Ma questo è il punto, «hic saltus», direbbero gli antichi. Del resto ha pure un senso se tutti si lamentano che mancano preti, quasi nessuno che mancano veri diaconi.
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L’Occidente è restio ad accettare l’uscita dal regime di cristianità. Da quell’assetto sociale cioè in cui esisteva una religione di stato, un primato della verità e del potere cristiano su ogni verità e Potere, una pratica coincidenza fra Dio-patria-famiglia, una organizzazione sociale dove nessuno era cittadino se non era anche cristiano, e dove braccio secolare e autorità spirituale finivano per legittimarsi reciprocamente. Questa uscita è un fatto forse irreversibile. Da esso lo scompiglio delle parrocchie, il calo delle vocazioni sacerdotali, la paurosa flessione della pratica sacramentale dei cristiani. Chi accetta i fatti come amici e non come disgrazie, intraprende con audacia il rimodellamento pastorale e parrocchiale. Chi non accetta (e sono tante le diocesi che non ‘accettano’) ricorre senza discernimento ai diaconi per affidare loro di fatto e in maniera abituale la direzione di una comunità o la presidenza di una assemblea domenicale. Ci si gloria così di diaconi-parroci, di diaconi-cappellani, poco badando se questi, da ministri di carità, corrono il rischio di scadere in formali ‘rubrìcisti’, attaccati alla forma anche quando è carente la sostanza.
Forse questo ripiego — illusorio e di corto respiro — è il modo migliore per distruggere l’identità diaconale. Diacono non significa sotto-prete, suo sostituto, distributore di sacre Ostie, proclamatore del Libro sacro in sostituzione di chi non c’è. Ha qualcosa di proprio il diacono, di specifico, pur nell’ovvia comunione col popolo di Dio, col Vescovo e col prete. E’ chiamato ad un ministero suo che insieme lo unisce all’Ordine sacro ma insieme lo diversifica e lo giustifica nel
suo stato. Il cardinale Kasper ne parla come di un ministero ordinato separato nella chiesa, riferendosi all’obbiettivo storico del diaconato inteso come organizzazione e ispirazione dell’apostolato sociale all’interno di una diocesi.
Ascoltare e fare ascoltare la Parola è bello, meritorio. Come lo è cibarsi del Cristo. Tuttavia il carisma diaconale eccede tutto questo se è vero che il diacono deve servire la Chiesa nell’espletamento totale della sua missione. Non ha senso una eucaristia che non sia essa stessa segno e sacramento della trasfigurazione degli uomini in Corpo di Cristo, o che non sia punto di partenza per quel donarsi «sine modo» ai fratelli che è mirabilmente simboleggiato dalla lavanda dei piedi, da un umile servizio cioè, a quanti, per miseria o dolore, non sanno di essere destinati a sedersi al tavolo della vita.
E che dire di questa dozzina di stole a tracolla che circonda il vescovo nelle celebrazioni in cattedrale? Il diacono non è «gloria» del suo signore, il Vescovo, non è suo servo come magari potrebbe far supporre la formula tratta dalla Tradizione apostolica di Ippolito all’inizio del terzo secolo: si è ordinati diaconi
«per il servizio del vescovo ».
Il diacono non è corte vescovile; E ci si dovrebbe chiedere molto onestamente che identità vuole avere nella chiesa quell’ordinato al ministero diaconale che, se si tratta di una funzione solenne in cattedrale corre, ma non fa caso se gli si affollano attorno i veri beneficiari del suo ministero, i poveracci cioè e gli emarginati, quanti aspettano di fare esperienza di Dio. Noi non vogliamo neppure immaginare che si deleghi proprio un diacono per cacciare dalla soglia della chiesa e spedirli agli uffici Caritas quei poveri che lì cercano qualche spicciolo per il loro pane e forse anche per il loro vino. Sarebbe il colmo.
Resta il fatto comunque che la riflessione teologica sul diaconato fino ad oggi si centrata sul rapporto di subordinazione lineare diacono-prete-vescovo . Scrive G. Bellia: «i diaconi restano bloccati sul piano del confronto con i preti ».
Si è fatta teologia astratta sistematica. Benemerita quanto si voglia, ma alla lunga di non vasto respiro. Perfino giustificatrice di abusi. Le cose cambiano se l’asse portante è il confronto diacono-missione della chiesa, diacono-fine della chiesa. Cioè se si comincia a parlare nell’ambito di una teologia pastorale. Ecco perché la questione diaconale è una grazia. Il disagio del suo status, l’approssimazione teoretica e la provvisorietà di certe assegnazioni diaconali, il rifiuto della sua stessa istituzione in intere chiese continentali, fanno del diaconato una occasione unica per parlare seriamente di salvezza, di destino del mondo e di natura della chiesa. Non che la chiesa abbia atteso l’esplodere della incertezza sul diaconato per affrontare problemi simili, ma senza dubbio questa questione riporta con violenza alla necessità di rivedere le sorgenti della fede, perché o da essa deriva la prassi diaconale o non ha senso. Non solo. In una riflessione pastorale entra abbondantemente l’elemento storico, la necessità tipica del nostro tempo. E questo ingresso della storia anche nella identità di un sacramento è qualcosa di essenziale, se è vero, come è vero, che la Chiesa ha sempre il potere e l’obbligo di precisare in maniera congrua ai tempi l’ampiezza delle funzioni sacramentali del diacono e la sua partecipazione alla gerarchia ecclesiastica.
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Chi dice cristianesimo dice Dio che cerca l’uomo e lo insegue nella sua carne. Dice una Parola che si è fatta concretezza e storia, uomo per l’appunto. Solo che tradisce il cristianesimo chi si ferma qui e dimentica che la Persona nata da Maria, il Verbo che ha preso carne umana, è il «Servo» mandato a servire i figli di Dio più poveri, i più disgraziati. Notissima l’espressione di San Paolo in Ef 2,7-8. «Non usò per rapina il suo essere uguale a Dio, ma si spogliò per divenire servo». E cioè «si spogliò per servire» gli «anawìm di Jahwé»: i piccoli, gli ultimi, gli oppressi a cui annunzia «liberazione e anno di grazia». Viene «per le pecore perdute della casa di Israele»; ed è quanto dire per quelli che erano esclusi, per infermità fisica o inadempienza morale, dal culto al tempio o nella sinagoga. Sarà strano quanto si vuole, saprà perfino di un certo tipo di razzismo, ma una cosa è sicura: Cristo non si sente inviato né ai ricchi né ai soddisfatti e manco ai potenti.
Se qualche lettore in questo momento si sta dicendo che di simili fastidiosi populismi è saturo, ebbene proprio a lui è rivolta la monografia. A lui che passa sopra a questa evidente radicalità evangelica per attestarsi su posizioni comode e su una chiesa che continua ad essere giudicata dal Vangelo che annunzia perché ama rivolgersi a ricchi e potenti , quasi a spingerli a passare per la cruna dell’ago.
Questi poveri, oggi vengono a noi. Tra Europa e USA e Canada si contano solo il 33,7% dei cattolici. Il resto è in America Latina, Africa, Asia, Oceania. Cioè è gente priva di cibo, di dignità, di diritti umani. Tantissimi italiani, di giorno in giorno, si accorgono di non farcela più a sopravvivere. Se questa non è chiesa dei poveri… Una delle due allora: o le chiese ricche continueranno ad appoggiare i governanti ricchi dei loro Paesi e si troveranno a difendersi dai poveri come da possibili terroristi; o il meglio della chiesa cattolica continuerà ad essere percepita come chi dice cose inutili sulla povertà planetaria trincerandosi su regole liturgiche, disquisizioni dogmatiche, e moralismi di basso profilo; oppure la chiesa ritroverà il suo Signore che mai ha disertato il campo di disgraziati e malfamati. La conseguenza sarà che queste vecchie chiese solo immergendosi tra ammalati, esuberi umani destinati ad essere tolti di mezzo, oppressi di ogni Continente, potrà fare esperienza del Signore, Padre ricco in tenerezza e bontà. Già perché, come diceva lvan Illich, il male non si può estirpare dal mondo ma per eliminare alcuni miliardi di persone ci si può magari attrezzare. Molti non si accorgono che siamo a buon punto.
Ed ora immaginiamo che la chiesa si convinca ad essere povera coi poveri. Immaginiamo che cessi di cercare quelle sicurezze date dall’adeguamento, critico magari, ma non troppo, agli «schemi di questo mondo», questa chiesa si troverà allora peggio di Gesù in riva al lago di Genesareth. Sarà costretta a noleggiare la barca di Pietro, prendere il largo e dare speranza a tutti i disgraziati del pianeta. Credete allora che i diaconi li faremmo bivaccare in sonnolenti riti del Santo Patrono? Non si scoprirebbe, quasi per incanto, il carisma di questi credenti chiamati sì ad «aiutare» il Vescovo nel suo ministero di comunione (LG 20), ma non primariamente nei riti — dato che non sono stati ordinati in vista del sacerdozio (LG 29) — bensì per il servizio ad una eucaristia autentica, per servire cioè la Parola incarnata nella dimensione diaconale dello stesso ministero episcopale? Si badi bene che solo una teologia fasulla può pensare che la diaconia del diacono abbia per oggetto di servizio il vescovo che ne determinerà di volta in volta ambiti e tempi (come fino ad ora si è fatto utilizzando i diaconi come chierichetti di lusso).
Se è vero che il ministero del vescovo ha per oggetto una comunità che si trasforma in Corpo di Cristo, che fondandosi sulla Parola, soccorre il suo Signore nella persona dei poveri e degli abbandonati ai margini della vita, una comunità che testimonia al mondo come verità ultima dell’uomo la capacità di spezzarsi, servire e donarsi, allora il diacono aiuta il vescovo quando «serve» la comunità. Questo servizio è molteplice: aiuto al vescovo e al prete perché l’Eucaristia sia non solo valida e lecita ma autentica, tale da indurre i credenti a trovare tempi e modi per divenire pane spezzato e sangue versato per il mondo — aiuto a prete e vescovo perché la Parola non sia mera ripetizione di appelli antichi, ma «ricordo», «memoriale» del Signore che vuole incarnarsi nella storia e nei gesti dell’uomo di oggi — aiuto perché la comunità «serva» i poveri destinatari privilegiati del Vangelo, con stile povero, come quello del suo Signore, Figlio dell’uomo, Servo di Jahwé, umile servo dei suoi fratelli.
Così il diacono, sorpassando gli attuali ambiti di sostituto e manovalanza ecclesiale a basso prezzo, diventa simbolo di una realtà più grande: esprime in modo eminente in sé ciò che tutta la chiesa è chiamata a fare: assumere la condizione del «Servo», diventare un popolo di servi, testimoniare e ridare al mondo il gusto del «servizio». Forse non ci rendiamo conto che la nostra società, in quanto a Vangelo, è arrivata al capolinea della sua pratica negazione. Una società che teorizza il diritto della forza e la supremazia del denaro, ha finito da tempo di servire l’uomo. Si immagina di essere Dio. E se un gusto lo mantiene, ha quello del farsi servire dai reietti e non di servire la crescita di ogni figlio d’uomo.
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Noi non vogliamo favorire fughe in avanti. La nostra monografia ha un occhio al futuro certamente, ma è ben piantata nell’oggi. E se ci preme sottolineare che una chiesa cambia radicalmente quando oltre a centrale della grazia sacramentale si vede laboratorio di servizio al mondo, ci teniamo ad indicare piste possibili, ora e qui, perché la comunità stessa diventi diaconale.
Non abbiamo bisogno di nessuna autorizzazione dall’alto se un diacono che già è impiegato nella liturgia la colora di spirito diaconale. Egli non presiede l’assemblea liturgica, ma può darsi da fare perché la gente vi partecipi in pienezza, uscendo da quell’intimismo in cui spesso ristagna. Potrebbe animare la preghiera dei fedeli, abbandonando il «precotto dei foglietti» — come diceva un parroco— lo «spartito» previsto chi sa dove e chi sa da chi. Potrebbe contribuire a far comprendere che non c’è eucaristia senza lavanda dei piedi. E per noi questo è servizio all’autenticità della Messa.
Neppure abbiamo bisogno di qualche decreto delle Congregazioni romane perché il diacono prenda sul serio il suo essere associato al ministero della Parola. Proclama il Vangelo nella liturgia e questo è solo il punto apicale di molte altre proclamazioni: catechesi, consolazione ai poveri e agli afflitti, predicazione, professionalità testimoniante, vita coniugale nella gioia di un amore che si fa nudo dono. Anche qui essi rendono autentica, coerente (non solo valida e lecita) una comunità di credenti e lo stesso annunzio del Vangelo.
E c’è appena bisogno di dire che nulla di straordinario si presuppone se il diacono «aiuta» il vescovo ad essere… diacono, servitore. Qui gli orizzonti si slargano. Un vescovo non è chiamato a «prendere possesso» di una diocesi, ma a servirla, con l’unica veste liturgica prevista dal Vangelo, «il grembiule». Chi sarà segno di questo appello? Chi gli ricorderà che le sue fatiche non gli danno diritto a niente, se non ad essere «servo inutile»? Si dimentica piuttosto spesso che la sofferenza e l’impegno diuturno, nella chiesa non costituiscono diritto. Tu hai lavorato e sofferto? — insinua il Vangelo (cf Lc 17,10). E allora? Ci si metta in coda con quanti soffrono, lavorano e non contano nulla. Soffrire, faticare non basta. Bisogna capire che anche altri lavorano e faticano, e spesso in modo inimmaginabile, fino al martirio. E se tu puoi farci qualcosa per i figli di Dio, fallo pure, senza attenderti nulla, senza pretendere di salvare un altro uomo ma solo di servirlo, senza agitare come un trofèo ed una carta di credito la tua croce. Neppure come una credenziale per l’avanzamento di carriera in un «altrove prestigioso». Lavori e ti spezzi per il Regno perché è la cosa giusta e basta. Perché nel volto del povero hai letto un bisogno ed hai avuto il dono di potervi rispondere. Ti pare poco essere «servo inutile» di Dio?
Un vescovo è «padre dei poveri» a somiglianza del Cristo. È chiamato non solo alla beneficenza, alla solidarietà coi diseredati, ma a rendere presente il Cristo che si è donato agli uomini amati, che è stato dono sostanziale. Colui che tutto ha ricevuto dal Padre, tutto si dona agli uomini. Questa dimensione cristica trasforma ogni nostro amore ed ogni nostra elemosina. Ci fa sognatori di un mondo dove l’amore struttura la storia e non la infiocchetta soltanto di qualche rimasuglio di compassione posticcia. In questo amore ogni uomo è suo fratello, è me. Di lui mi importa. E chi se non il diacono ricorderà — coi fatti! — alla chiesa il suo dovere di prendere seriamente il Vangelo? Chi rammenterà il taglio autentico di una solidarietà cristiana con gli esclusi e i marginali? Oppure la necessità di stare dalla loro parte anche quando scioperano o ripudiano la guerra, perché senza questa connivenza coi «poveri» l’uomo non si salva e la chiesa rinnega il suo Signore (Mt 25,31 ss)?
Queste dimensioni si legano tra loro, come del resto l’Eucaristia è legata e realizzata in tutta la complessa vita della chiesa. Si può allora dire che «l’aiuto» dei diaconi a preti e vescovi, il loro apporto al ministero apostolico di servizio alla comunità consiste nel vegliare perché i santi misteri di Cristo e della Chiesa vengano sempre celebrati «in verità», nella loro ricaduta pratica esistenziale, da cuori che vogliono autenticamente vivere lo Spirito di Cristo, servo di Dio e degli uomini.
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I contributi che presentiamo si basano su un presupposto: se i diaconi sonnecchiano tra sacre parate e arrangiamenti di vocazioni mancate, se oggi il diaconato appare privilegio di pensionati o vedovi, qualche volta alla conquista di un nuovo riconoscimento sociale, la ragione sta in una chiesa troppo poco «serva» e troppo poco compassionevole. Essa non è aliena dall’amore, ma forse difetta del «principio-amore». Fa della carità una virtù morale, non l’asse portante di ogni suo dire su Dio e di ogni suo fare a favore dell’uomo.
I diaconi sono esattamente l’espressione del modo come una chiesa, —poco evangelicamente —percepisce l’amore, se stessa, il suo compito. Se vogliamo diaconi altri, la chiesa deve essere altra.
A questo ripensamento di se stessa non può non contribuire l’ascolto della Parola di Dio che si leva dalla storia. Una chiesa a-temporale, tutto sarebbe ma non la chiesa del Verbo fatto carne e concretezza spazio-temporale. Ebbene, è a questo snodo che bisogna porre certe domande. Di che ha bisogno il mondo moderno? Di che ha nostalgia questa umanità scaraventata violentemente nel terrore? Cosa attendono questi poveri che spingono i loro figli migliori ad affrontare ad occhi aperti una morte per riscattare i loro fratelli da una vita oppressa e disprezzata?
Agli inizi del secolo scorso quando la rivolta dei poveri era circoscritta alle istanze di una classe operaia che chiedeva condizioni di vita più umane, la chiesa tardò molto a rendersi conto di cosa era in gioco. Al turbinio sociale rispose in genere con le stesse armi di conservazione e cecità messe in campo dalla media e alta borghesia: un rifiuto radicale delle basi culturali del movimento operaio, una accusa di ribellismo gratuito, una diffidenza preconcetta al nuovo che si profilava.
Nel 1881 a Parigi si proibì un quaresimale dal tema: «Riconciliazione della Chiesa con l’età moderna». «Parlate della Vergine Maria, è meglio» suggerì al predicatore il Cardinale Guibert, Arcivescovo di Parigi. E nel 1883 Leone XIII nell’enciclica «Libertas» contesta che la libertà di pensiero, di parola, di religione, siano «diritti che la natura ha attribuito all’uomo». Con questi presupposti la risposta della Chiesa del secolo XIX e XX ai tempi moderni è stata la rinascita delle «sorgenti del cuore»: pratiche devozionali, richiamo alla misericordia di Dio, appelli a penitenza e rinuncia, alla «devozione eucaristica», alla Vergine, atti di consacrazione, pellegrinaggi. E il quadro è sempre identico, si può dire fino al Vaticano II. Una simile chiesa non aveva bisogno del diaconato. Ma la chiesa che si sognava a partire da Giovanni XXIII, quella sì che ne aveva bisogno. Nella misura in cui la Lumen Gentium, la Gaudium et Spes, onorate a parole ma ostacolate nei fatti, diventavano documenti storici e non paradigmi di chiesa, nella stessa misura il diaconato rientrava nei ruoli consueti, sostanzialmente inutile, congruo ad una comunità ecclesiale che in fondo di esso non aveva alcun bisogno. Aspettiamo una chiesa povera, dei poveri, «serva». Segno premonitore e quasi primizia di questa chiesa sarà un diaconato «altro», la venuta di diaconi «veri».