In questo venerdì santo desideriamo condividere con voi tutti questa straordinaria omelia dell’Arcivescovo di Gaeta, Luigi Vari. Carica di una grande umanità ci chiama tutti ad essere l’oggi di Cristo per questo mondo. Che Dio ci aiuti.
“Volere essere l’oggi di Cristo trasmette alla nostra vita il sentimento dell’inquietudine”.
Omelia dell’Arcivescovo di Gaeta Luigi Vari alla messa crismale
Pieni di segni e di misteri questi giorni della settimana santa, piena di suggestioni questa liturgia di stasera che ci chiede di riflettere una volta non tanto sugli altri, ma su noi stessi e chiede a voi, carissimi fratelli, di riflettere sul dono del sacerdozio e di pregare per i sacerdoti.
Siamo noi, infatti, quelli che vedono Gesù chinarsi di fronte ai loro piedi per lavarli; noi che riceviamo il pane nelle nostre mani e accogliamo la coppa del vino e ci chiediamo che senso abbiano quelle parole che ci lasciano stupiti a chiederci se sono rivolte proprio a noi quando ci chiedono di fare quello che Lui fa in memoria di Lui; non per conservarne il ricordo come si fa con una foto che si scolorisce nel tempo, ma per rappresentarlo vivo in ogni giorno della nostra vita.
Cari fratelli sacerdoti, Gesù ci ha chiamati a essere il suo oggi.
Abbiamo ascoltato il brano del Vangelo che ci ricorda di Gesù che entra nella sinagoga, apre il rotolo delle scritture e dopo aver letto di tutte quelle promesse che le persone lì presenti erano abituate a sentire senza nemmeno farci più caso, sorprende tutti, dà improvvisa attualità a quelle parole, dicendo: queste scritture si realizzano in me, si realizzano oggi.
Essere l’oggi di Cristo, l’oggi del Vangelo richiede tanta fede, tanta speranza e tanta carità, richiede cioè tanto Dio nella nostra vita.
Essere oggi chiede alcune condizioni, la prima è la maturità di chi non pensa che la vita era ieri o sarà domani, ma oltre questo, la condizione fondamentale è quella caratteristica di chi si occupa di rendere attuali i propri sentimenti e i propri impegni. Volere essere l’oggi di Cristo trasmette alla nostra vita il sentimento dell’inquietudine. L’inquietudine è il sentimento che ci fa simili a tanti papà e tante mamme, che quando i figli sono addormentati, li guardano per qualche momento e se sanno che hanno qualche preoccupazione o ferita nel cuore, si chiedono come possono fare per curarla. La domanda continua e sincera che è nel cuore di un padre deve stare anche in quella di un sacerdote, che cosa posso fare per guarire ancora, per fasciare quella piaga, per sostenere quel cuore spezzato? Che cosa posso fare oggi. Un cuore è inquieto se vede persone vive attorno a sé, non persone perfette, ma vive. L’inquietudine è il motore che spinge a chiederci sempre che cosa altro possiamo fare e non ci sfiora nemmeno il pensiero che non c’è più niente da fare.
Cari fratelli sacerdoti noi siamo le sentinelle dell’oggi, siamo chiamati a essere l’oggi di Cristo e lo siamo ogni volta che impegniamo la nostra vita perché l’amore di Cristo raggiunga un qualunque cuore.
C’è una virtù legata all’oggi, la fedeltà.
Non siamo l’oggi di un’idea o di un personaggio di grande importanza, ma siamo l’oggi di Cristo, l’oggi di Dio; mi sembra che molte volte ci sfugge la dimensione che definisce Dio più di ogni altra, quella dell’essere infinito.
Questo causa in noi, di fronte ai cambiamenti della cultura e della società, che prima erano epocali e adesso ravvicinati così che ognuno di noi può raccontare diversi, un senso di smarrimento. Il mondo ci sembra uno sconosciuto e siamo sorpresi come si alternino maestri che riempiono di sé il tempo di un giorno, abbastanza, però per disorientare molti. La cultura dominante è quella del naufragio, a noi tocca abitare questi mondi sconosciuti con l’animo di chi esplora con gli occhi di Dio, dell’infinito che non si lascia mettere in scacco dalla finitezza delle esperienze, che non si chiude per aver fatto il conto dei limiti. Il nostro pensiero deve essere un pensiero di fede, cioè infinito, libero, non un punto di vista, uno schema nel quale far rientrare tutto, pensando che Dio è più grande e niente può esaurirne la grandezza o metterne in scacco la potenza.
Ridurre il nostro ministero all’applicazione di schemi e protocolli, parlarne come se Dio non c’entrasse niente, o addirittura misurarlo come si farebbe se fossimo dei politici o degli amministratori, ci rende tristi, insignificanti, perché il mondo è pieno di gente che sa gestire carriere e successi meglio di noi, ma non sono mai abbastanza le persone che riflettano l’infinito di Dio.
Infine per essere l’oggi di Cristo abbiamo bisogno di immaginazione. Gaeta ha dato i natali a un pittore che si chiama Scipione Pulzone, c’è una sua opera a Villa Sora, a Frascati, che ritrae papa Gregorio XIII; l’eccezionale di questo lavoro è che in esso si prefigura l’arte dell’illusione, che troverà il suo trionfo più avanti. In questo quadro, infatti, chi guarda vede il ritratto del papa in un ritratto dentro al ritratto, e l’opera restituisce allo spettatore un senso di profondità, di tridimensionalità, fino ad allora inedito.
Immaginazione significa forzare gli spazi, forzare i colori della vita, spesso sbiaditi o sporcati da tante esperienze negative.
L’immaginazione dell’incarnazione, l’immaginazione che porta a dare per primi l’esempio, quella che per partire ha bisogno solo di un tratto di matita o di una pennellata.
Carissimi fratelli, forse quello che ci manca per comprendere le parole che oggi circolano nella Chiesa, come ascolto e discernimento, è proprio l’immaginazione che sola permette di fronte a un muro di immaginare che oltre c’è qualcosa; sola può aiutare a immaginare che una strada percorsa poco forse è migliore di una battuta fino a essere consumata.
L’immaginazione che ti fa cercare i colori che mancano, che di fronte alla sconfitta, ti fa subito immaginare una nuova battaglia.
In un sacerdote l’immaginazione, la voglia di non arrendersi mai è la garanzia che sta realizzando l’oggi di Cristo.
Carissimi fratelli che siete qui questa sera soprattutto per pregare per noi sacerdoti che siamo stati costituiti al vostro servizio, vi chiedo di volerci bene e di aiutarci quando vedete che l’inquietudine di sta spegnendo, quando vedete che parliamo come tutti e le nostre parole non hanno il sapore di Dio, che diciamo solo parole scontate, quando vedete che ci lasciamo cadere le braccia di fronte a muri alti e invalicabili. Aiutateci, magari raccontandoci quello che fate nella vita di tutti i giorni quando i conti non tornano mai e sembra che non hai mai fatto abbastanza, aiutateci ad amare raccontando come amate voi, come non vi interessa di perdere la vostra vita se è per aiutare un figlio o per non abbandonare un familiare; aiutateci chiedendo che dal nostro cuore tiriamo fuori un po’ di infinito perché vi sentite soffocare se noi non ve lo regaliamo e rischiate di smettere di sperare e di credere.
Aiutateci quando ci vedete stanchi di fronte a una tela che sembra vuota, non compatendoci, ma chiedendoci: dammi un colore e se proprio qualche volta vedete che proprio non ci riusciamo, cominciate voi a fare il disegno e poi un disegno nel disegno, a cercare un colore dopo l’altro fino a quando noi ci ricordiamo che siamo maestro che hanno gli occhi di Cristo, il cuore di Cristo, le mani di Cristo.
Signore Gesù aiutaci a fare della chiesa un murales, e non un lapidario.
Signore aiutaci a fare della Chiesa un luogo dove si senta la vita e liberaci dal rimpianto, dal sospiro, dalla recriminazione, e da tutto quanto quello che appena c’entri, ti fa pentire di averlo fatto.
E soprattutto Signore, se qualche volta le nostre comunità sono case dove non si sta bene, non ci far perdere tempo con le analisi sociologiche, ma fa che ci preoccupiamo di dare un po’ d’aria, un po’ di luce, di spolverare, di profumare e di sorridere.