Inizia oggi la nostra collaborazione con l’eremita Mirella Muià di Gerace in Calabria. Siamo molto contenti di poter fare questo servizio che ci aiuta a fare comunione e a costruire una Chiesa aperta.
Ringraziamo di cuore Madre Mirella per questa sua disponibilità a condividere la sua meditazione e il “frutto” del suo silenzio e di quel respiro di Dio che suscita sempre cose nuove capaci di rinnovare il mondo. Questa disponibilità di Madre Mirella è un grande dono e un grande privilegio per noi tutti che possiamo ascoltarla e gliene siamo molto grati.
Franca e Vincenzo osb-cam
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ECCO LA STORIA DI MIRELLA MUIA’ PUBBLICATA SU ZENIT.
Ricercatrice presso la Sorbona di Parigi dal 1977 al 1989, oggi è consacrata monaca eremita diocesana e dirige l’eremo dell’Unità e la Chiesa di S. Maria di Monserrato in Gerace (RC)
Calabrese originaria di Siderno (RC), suor Mirella Muià è stata ricercatrice presso la Sorbona di Parigi dal 1977 al 1989. Consacrata monaca eremita diocesana nel 2012 da Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, a lei è stato affidato l’eremo dell’Unità e la Chiesa di S. Maria di Monserrato in Gerace (RC). ZENIT l’ha intervistata.
Suor Mirella, lei è una monaca eremita nella diocesi di Locri-Gerace. Ha fortemente voluto far germogliare l’antico rito bizantino in una terra, la Calabria, che ha ospitato molti santi bizantini. È una scelta che simbolicamente richiama la bellezza e la grande ricchezza di una terra carica di spiritualità e preghiera. È frutto di una nostalgia di quel passato o chiave d’accesso per il futuro?
Non è nostalgia di passato, in quanto io non l’ho conosciuto come tale. L’ho conosciuto come presente. Ho conosciuto il mondo e la Chiesa orientale quando ero a Parigi, quindi non in Calabria. Quando sono arrivata in Calabria – dopo la conversione – ho visto che qui c’erano le radici del mio battesimo. Ho cercato di vederle come una realtà presente, anche se sommersa. E le ho incontrate al presente, ancora, anche a Cosenza, avendo lì trascorso un breve periodo prima di venire a Gerace. Lì è presente un respiro orientale grazie all’Eparchia di Lungro. È una realtà di quelle radici che sembravano morte ed invece ci proietta nel futuro verso il mistero della comunione con le chiese orientali e con tutte le chiese divise. Proprio perché questa è la vocazione della nostra chiesa di Calabria, quella di essere un ponte tra le chiese di oriente e occidente.
Sappiamo che Lei ha studiato e vissuto a Parigi, ha fatto anche un percorso di ricerca in ambito universitario. Cosa l’ha spinta a lasciare la ricerca scientifica per intraprendere la ricerca spirituale?
Quel che mi ha spinto a lasciare la ricerca scientifica è la stessa cosa che mi aveva spinto ad iniziare. Considera che ho lasciato la fede a 15 anni, abbandonando una vocazione che era già chiaramente monastica che però non ho avuto il coraggio di assumere. Quella ricerca di senso, di verità e di bellezza l’ho proiettata sulla cultura. Quindi era la stessa ricerca in un’altra dimensione. Ovviamente, ogni volta che ottenevo un risultato – che non dipendeva dal fatto che fossi particolarmente “secchiona”, in quanto non mi interessava lo studio per lo studio – proprio a Parigi dove avere dei risultati era molto duro, mi rendevo conto di due cose: la prima, che c’era qualcosa che mi impediva di legarmi, perché ovviamente non era quello che cercavo, io cercavo un senso, non cercavo un ruolo; la seconda cosa era che in tutto ciò che ho ottenuto non c’era, se non una briciola, di quello che cercavo, quindi mi rendevo conto che dovevo proseguire verso un’altra direzione. Quando è avvenuta la conversione, nel 1987 – considerato che dal 1962 ero lontanissima dalla fede e dalla Chiesa – ho ritrovato il senso che cercavo, e questo senso mi ha permesso di comprendere che la mia vocazione, che ritrovavo come quando l’avevo lasciata, mi riportava nel paese da cui ero partita da bambina come migrante. Lasciare quella che poteva sembrare una carriera, in prospettiva futura, poteva essere un problema, che non mi sono però posta. La scelta era già fatta. Non ho provato dispiacere per aver lasciato l’insegnamento, perché io cercavo altro… Di tante persone, quando rinunciano a qualche risultato della loro vita per una scelta di vita più radicale mi accorgo che fanno una certa fatica, perché la rinuncia è una fatica, quindi hanno un merito. Io non ho neanche questo merito, perché non mi sono accorta di aver rinunciato… è stato un seguire qualcosa che si realizzava verso un’altra prospettiva.
Possiamo dire che è lei la fondatrice delle monache dell’“eremo dell’Unità”?
In realtà, potrei dire che non sono fondatrice, in quanto, il fatto che si tratti di un’esperienza di rinascita del monachesimo Italo-Greco è una continuità, di conseguenza non è una fondazione. Si tratta in realtà della fondazione di un eremo. Questo è vero. Ma non potrei neanche dire che l’eremo sia legato ad altre monache, perché è vero che ci sono alcune sorelle con cui durante questi anni ho fatto un cammino, un percorso di formazione e di ricerca, ma ognuna, un po’ come gli eremiti di queste valli nel passato, vive la sua esperienza in un contesto diverso dall’eremo. In altri eremi sparsi, che possono essere case in un paese, un piccolo santuario in un altro posto … e sono in ricerca in quanto sono giunte a questa realtà da poco. Però è vero che si tratta di una realtà che esiste: una fraternità che fa riferimento all’eremo, ma in cui ogni sorella cammina con le sue gambe. Ognuna ha il suo modo di essere nel mondo. Tanto più in quanto si tratta di donne mature – non ragazze – che hanno una loro storia e una loro personalità già ben definite; ma che ci sia una spiritualità delle monache dell’Unità non c’è dubbio! In realtà se questo vuol dire “fondare” non lo so. Fondare è una parola impegnativa dal punto di vista canonico. E io, confesso, non mi pongo da questo punto di vista…
L’abito che indossa l’ha fatto Lei, o l’ha ripreso da un particolare ordine?
All’inizio è stato ripreso da un’esperienza di vita monastica a cui sono molto legata. È stata un po’ la madre del mio cammino monastico in occidente. È la piccola famiglia dell’Annunziata fondata nel 1956 da don Giuseppe Dossetti. Da loro ho imparato tantissimo, in particolare l’ascolto della Parola. Tutta la loro vita è basata sulla Scrittura e sul lavoro. L’ispirazione è chiaramente benedettina, ma don Dossetti, che aveva un grande amore verso l’oriente, manteneva dei legami con i monasteri ortodossi, tanto da mandare i suoi monaci e le monache ad istruirsi da loro dicendo <<andate da loro ad imparare cos’è il monachesimo>>. Loro si ispiravano per il colore dell’abito al colore delle rocce e delle montagne del deserto di Giuda che è questo color “ocra” – componente essenziale dell’iconografia! Ed io l’ho adottato, insieme al velo volutamente simile a quello delle monache ortodosse, con la differenza che, su invito di Mons. Bregantini (allora vescovo di Locri-Gerace), che vedendomi sempre con il velo nero, mi diceva: <<ma lo sai che da noi c’è bisogno anche del segno della luce?>>, ho detto: è vero! Ecco perché, da Pasqua all’Esaltazione della Santa Croce, solennità del 14 settembre, il velo è bianco, in quanto segno di luce e risurrezione, e torna ad essere nero fino alla Pasqua successiva, perché è un colore che indica l’esperienza di una penitenza e di un lutto necessari per l’unità ancora incompiuta della Chiesa. E questo oggi è necessario, veramente necessario!
Lei riesce ad unire l’ufficio bizantino (come preghiera) e l’approfondimento della parola (Lectio Divina) secondo la tradizione benedettina. Riesce ad unire Oriente ed Occidente non solo simbolicamente ma anche praticamente. La Chiesa è una sola, ma molte sono le espressioni all’interno di essa. Come impostare secondo Lei un discorso davvero ecumenico? Come ritrovare la vera comunione?
Papa Francesco sta dando proprio queste risposte. È il dialogo della carità. Io credo che il dialogo teologico sia necessario ma può essere un abbaglio. Nel senso che i punti di dissidio secondo una prospettiva teologica-ecclesiologica, in realtà sono già stati affrontati e sciolti. Purtroppo, nella maggior parte dei casi si finge che questo non sia mai successo. Si finge che sia necessario ancora discuterne. Non c’è più da discutere. Se noi sappiamo fare un’autocritica storica capiremo che la Chiesa ha dato una lettura della sua presenza nel mondo che non era scevra da considerazioni storiche e politiche, così com’è stato nell’oriente riguardo al legame con l’impero. Se ognuno di noi riuscisse a fare un esame delle “intenzioni storiche” si renderà conto che non sono più valide quelle motivazioni. Lo scisma stesso non esiste. È un falso. Quando il Card. Umberto Di Silva Candida ha portato la scomunica del Papa a Costantinopoli (1054) per consegnarla al Patriarca, nel frattempo il Papa era morto e quell’atto era invalido! Quindi, noi per secoli ci siamo basati su un atto che non è valido. Chi deve saperlo lo sa! Però, siccome tale atto ha dato, per così dire, l’ultima stoccata ad un dissidio che durava da secoli, allora… è su questo che bisogna lavorare. Quindi, se non c’è un abbandono fiducioso all’opera dello Spirito che tende sempre più alla comunione noi non riusciremo, né col dialogo teologico né con le correzioni giuridiche, a ritrovare la comunione. Per questo è necessario il dialogo della carità, che presuppone l’attribuire all’altro – in questo caso da parte nostra alle Chiese orientali, e viceversa – la validità della fede, la rettitudine delle intenzioni, perché se continuiamo a basare il rapporto sulla diffidenza reciproca ogni altro sforzo è inutile. Le identità entrano in contatto e sono capaci di stabilire una circolazione di vita all’interno della Chiesa universale. Ricordate cosa disse il Patriarca Atenagora in questo senso? <<la Chiesa è una! E all’interno di questa Chiesa c’è un calice, in quel calice il Signore si dona totalmente. Noi invece, proprio a partire dal calice disputiamo sulle differenze. È come se noi cacciassimo il Signore dal calice. Mentre in realtà Lui si dona affinché noi versiamo questo calice nel mondo>>. Questo non avviene a causa della divisione. Ma la divisione è nel cuore, da lì bisogna ripartire: dalle nostre reciproche paure di perdere la nostra identità. Il dialogo della carità è l’unica via! Serve una resa, sì, una resa! Di fronte al fratello mi arrendo perché è mio fratello, non perché dico “ho torto”. La resa vuol dire “desidero che tu non mi veda come un nemico”, ma devo cominciare io a non vedere lui come un nemico. Questo sta facendo il Papa.
Le icone che lei realizza sono un concentrato di bravura tecnica e preghiera profonda. Che significato hanno e quali le caratteristiche che un’icona deve necessariamente avere?
Certamente è richiesta una base di preparazione che non può essere improvvisata. Non si può essere autodidatti. C’è bisogno di una scuola e di un maestro. Però è necessario che il maestro lo sia anche di fede e di vita. Il mio maestro era un iconografo gesuita di rito orientale. In realtà, se non si riesce a ricevere una tecnica insieme con un’esperienza di fede, la scuola di iconografia è paragonabile alle altre che danno un metodo e basta. Nell’icona quello che conta è l’esperienza personale del mistero che si sta rappresentando. Una persona può anche essere bravissima dal punto di vista tecnico, ma se non ha un’esperienza personale di fede, di quella luce che cerca di restituire… l’icona potrebbe essere un’opera perfetta ma è come se fosse una porta che fa fatica a schiudersi. Ci sono icone che aiutano a pregare, ed altre che non aiutano a pregare. Le icone in cui si avverte la pregnanza di una presenza, che è restituita proprio dall’intensità dell’esperienza di fede, aiutano a pregare! L’intensità di uno sguardo nell’icona è ciò che attrae. Perché l’icona ti guarda. Se tu riesci a trasmettere la forza di questo sguardo, sai che chi si ferma di fronte all’icona si sente guardato e quindi già prega anche se non lo sa! Per questo è un servizio complesso. Io non sono tecnicamente molto brava. L’icona è anche una lotta, affinché quella luce emerga. I colori sono come la terra, la terra come fango, e come fai a rappresentare quella luce nel fango? Eppure rappresenta proprio il cammino dell’uomo. Vivere tutto questo in maniera intensa e personale vuol dire vivere il mistero della Chiesa e quindi restituire un’immagine che parla. In questo non sempre si riesce. L’iconografo non è un pittore che fa delle opere secondo l’ispirazione personale, ma è qualcuno che obbedisce ad un ministero della Chiesa e che rappresenta i misteri secondo la tradizione. È un servizio alla Chiesa, alla fede, alla speranza.
Cos’è il silenzio? Può essere condiviso con altre persone all’interno dello stesso luogo o la solitudine dell’eremo è presupposto essenziale per viverlo pienamente?
Il silenzio è semplicemente l’ascolto. Se uno ascolta, tace. Quindi per ascoltare è necessario tacere. Il silenzio non è mutismo. È la capacità di fare silenzio proprio perché c’è qualcuno o qualcosa da ascoltare che può anche essere la voce della natura. In realtà il silenzio di un eremo è l’ascolto di Qualcuno, ma è anche l’ascolto di altri, dei fratelli. Il silenzio è uno stare davanti a qualcuno che ti parla. Non è una forma di passività né un ritiro dalla realtà. La forma più grande di silenzio è proprio quella che ti mette di fronte al silenzio di Dio. Siamo due silenziosi uno davanti all’altro e si ascolta il respiro, si sente quasi battere il cuore di Dio per le sue creature e per il mondo. Il silenzio, a volte, può essere l’assenza di quella parola che è la parola stessa di Dio, perché in alcuni momenti in cui tutto tace, anche la parola di Dio tace. Questa è la preghiera profonda. In un eremo la solitudine è condizione necessaria per il silenzio, però non è una condizione rigida, in oriente per esempio, gli eremi non sono sempre luoghi in cui si trova una persona sola, ma spesso c’è una formula intermedia definita della “skiti” che presenta un gruppo di eremiti. Come stanno insieme gli eremiti? Il silenzio in questo caso riguarda la comunicazione “essenziale”. Si, è anche possibile custodire il silenzio con altri, come fanno i certosini, a cui sono molto legata. Ma nello stesso tempo è più difficile, ma è bello in quanto diventa un silenzio di comunione.
Qual è la fatica più grande della vita eremitica e quale allo stesso modo la maggiore gioia?
La fatica più grande è la lotta contro lo scoraggiamento. La vita eremitica può portare allo scoraggiamento non perché la solitudine porta a questo, ma perché questo tipo di solitudine porta in sé un rischio che è quello della tentazione di vedersi come estranei, esclusi, stranieri, incompresi… la realtà può anche essere questa, ma non conta, quello che conta è che tu ti senta appartenere alla famiglia umana, non chiedi alla famiglia umana di riconoscere te come suo membro. Sei tu che devi riconoscere loro. La fatica accresce anche con la relazione al territorio. Ed il nostro è un territorio difficile, da cui nasce la diffidenza le calunnie… perché la vita eremitica è incomprensibile – e talvolta alcuni sono tentati di spiegarla come una condanna agli arresti domiciliari… Questo rapporto può appesantire. L’altro aspetto è l’età che avanza. La difficoltà sempre più grande di assumere determinate fatiche. L’orto che non riesci più a fare, la tua difficoltà a curare da sola il contesto esterno. Un eremita non è mai giovane, di solito viene da una vita o comunitaria o vissuta intensamente. Io stessa ho vissuto per alcuni anni con delle sorelle a Cosenza. È la sua stessa vita, quella vissuta, che un eremita porta con sé nell’eremo. Non essendo giovane si trova prima o poi al limite delle proprie forze, ed è per questo che la lotta contro lo scoraggiamento è molto importante. Richiede un abbandono ed una fiducia crescente, e la preghiera costante è quella della povertà che è abbandono totale. Occorre mantenere la coscienza libera da tutti quei legami con situazioni e persone che cercano in parte di condizionarla. C’è un solo antidoto, la preghiera! La maggiore gioia è il fatto di scoprire che la tua povertà è una grande gioia! San Francesco d’Assisi spiegava la perfetta letizia a fra Leone come somiglianza al Signore in termini di povertà e di rifiuto subìto nella pace interiore.
La Sacra Scrittura si studia e si ascolta, si legge e si medita. Come si vive pienamente la Parola? Come approcciare ad essa?
Si è vero, ma soprattutto si riceve! Si riceve come un dono di pienezza di vita in cui il Signore consegna se stesso all’interno del nostro linguaggio. Consegna qualcosa della sua verità del suo essere, attraverso il nostro linguaggio. Lui fa questo passo ed anche a noi è richiesto farlo attraverso il linguaggio, per incontrare chi ci parla non in modo cattedratico, come un maestro o un filosofo. Il Signore non ha delle idee da trasmetterci, ma vuole farci partecipare alla pienezza della sua vita e ci dimostra come nella nostra vita Lui è presente. La conoscenza della Scrittura e il discernimento ci aiutano a ritrovare noi stessi in un contesto che a prima vista sembra impossibile. Per esempio, come faccio io a ritrovarmi nelle storie dell’AT? Se io considero la Parola e tutta la Scrittura come profezia capisco che è per me nella misura in cui mi ritrovo in una situazione biblica che mi parla della mia stessa storia. Le grandi figure mi danno delle indicazioni. Pensa a Caino e Abele, è straordinario quello che si può imparare dalla relazione tra i due. È attualissimo. Mi aiuta a vedere dove sono. Se io per caso ho fatto mio il ragionamento di Caino, la Parola mi mette con le spalle al muro. La Scrittura è, come dice il Salmo 119 “Lampada per i miei passi è la Tua parola, luce sul mio cammino…” mi fa vedere dove sto andando. Oltre a darmi la chiave d’accesso al cuore di Dio, in quanto Lui manifesta le sue intenzioni verso di me attraverso la Parola.
articolo del giugno 2016 – autore Domenico De Angelis – https://it.zenit.org/