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Getta il seme e DORME; il seme germoglia e cresce.

La Parola che condividiamo e diffondiamo è capace di trasformare il mondo e cambiare il cuore dell’uomo, di ogni uomo. Come il piccolo seme piantato in terra cresce e diventa pianta che porta frutti e offre riparo, allo stesso modo la Parola diffusa e rilanciata è capace di cambiare il mondo. È quello che è successo dopo la morte e risurrezione di Gesù. La storia, infatti, ha preso un’altra direzione nell’intero pianeta e ha spaccato perfino la conta degli anni tra un prima di Cristo e un dopo Cristo.

Nulla di quello che è accaduto è merito dell’uomo ma le trasformazioni e i piccoli e grandi cambiamenti sono solo il frutto dell’azione potente ed irresistibile dello Spirito di Dio che, nascosto nella Parola, ci cambia il cuore e la vita.

Facciamoci attenti ascoltatori della Parola e anche la nostra vita cambierà!!!

Franca e Vincenzo osb-cam ♥️

Dal Vangelo secondo Marco
Mc 4,26-34

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Parola del Signore.

Il pettirosso e l’Alfa e omega

Oggi con la festa di Cristo Re dell’Universo si vuole sottolineare che Cristo redentore è il Signore della storia, l’inizio e la fine del tempo. Ebbene, proprio pochi minuti fa, nel piccolo giardino di casa, io e Franca, abbiamo intravisto tra i rami di un ulivo uno splendido pettirosso che in qualche modo ci è parso legato profondamente a questa festa di Cristo Re dell’Universo. A tal proposito ci sono due leggende che si sposano in maniera eccellente con questa idea del principio (per esempio il Natale momento di ingresso di Gesù nel mondo (alfa) e ormai prossimo e la Pasqua, festa per eccellenza (omega) momento della passione, morte e risurrezione). Scopriamo allora queste due leggende.

Secondo una leggenda, un piccolo uccellino marrone divideva la stalla a Betlemme con la Sacra Famiglia. La notte mentre la famiglia dormiva, notò che il fuoco si stava spegnendo. Cosi volò verso le braci e tenne il fuoco vivo con il movimento delle ali per tutta la notte, per tenere caldo Gesù Bambino. Al mattino era stato premiato con un bel petto rosso brillante come simbolo del suo amore per il neonato. Secondo un’altra leggenda, la colorazione rossastra del pettirosso deriva dalle macchie di sangue cadute sul petto di un uccellino nel tentativo di rimuovere con il becco la corona di spine che circondava la testa di Gesù Cristo sulla croce.

Franca e Vincenzo osb-cam ♥️

(scusate se questo post è un po’ lungo)

L’eremo di famiglia su Rai Radio 1 a Inviato speciale

In realtà ogni casa è un eremo. In tanti vivono il Silenzio come “eremiti” ma avendo, probabilmente, smarrito il senso e il valore del Silenzio non lo sanno.

Tra le ragioni dell’esistenza di un Eremo di Famiglia c’è anche questa e testimoniarlo diventa un’esigenza che è suscitata dallo Spirito. La Voce del Silenzio chiede Ascolto. Questa voce è il Respiro di Dio che si fa sentire a chi, nel Silenzio, vi pone attenzione.

Ne abbiamo parlato attraverso qualche breve battuta con Annamaria Caresta, di Rai Radio 1 che, sabato 25 settembre 2021 ha curato il servizio mandato in onda nella seconda parte della trasmissione radiofonica “Inviato Speciale”.

Nell’audio disponibile qui sotto (che è solo una parte del servizio completo mandato in onda) oltre alle parole di Vincenzo ci sono le voci del Vescovo di Campobasso- Boiano Giancarlo Bregantini e di altri eremiti: Madre Mirella Muia, dell’Eremo dell’Unità di Gerace in Calabria, di Fra Giovanni Maria (consacrato laico) e Suor Margherita dell’Eremo di Sant’Egidio a Boiano.

Servizio di Annamaria Caresta per Inviato Speciale andato in onda sabato 25/07/2021 su Rai Radio 1

La voce dell’Eremita Mirella MuiA’ commenta le letture di domenica 26 settembre 2021

Inizia oggi la nostra collaborazione con l’eremita Mirella Muià di Gerace in Calabria. Siamo molto contenti di poter fare questo servizio che ci aiuta a fare comunione e a costruire una Chiesa aperta.

Ringraziamo di cuore Madre Mirella per questa sua disponibilità a condividere la sua meditazione e il “frutto” del suo silenzio e di quel respiro di Dio che suscita sempre cose nuove capaci di rinnovare il mondo. Questa disponibilità di Madre Mirella è un grande dono e un grande privilegio per noi tutti che possiamo ascoltarla e gliene siamo molto grati.

Franca e Vincenzo osb-cam

Per ascoltare clicca qui 🙂

Commento dell’Eremita Mirella Muia alla XXVI Domenica del Tempo Ordinario

ECCO LA STORIA DI MIRELLA MUIA’ PUBBLICATA SU ZENIT.

Noi insieme a Mirella Muià

Ricercatrice presso la Sorbona di Parigi dal 1977 al 1989, oggi è consacrata monaca eremita diocesana e dirige l’eremo dell’Unità e la Chiesa di S. Maria di Monserrato in Gerace (RC)

Calabrese originaria di Siderno (RC), suor Mirella Muià è stata ricercatrice presso la Sorbona di Parigi dal 1977 al 1989. Consacrata monaca eremita diocesana nel 2012 da Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, a lei è stato affidato l’eremo dell’Unità e la Chiesa di S. Maria di Monserrato in Gerace (RC). ZENIT l’ha intervistata.

Suor Mirella, lei è una monaca eremita nella diocesi di Locri-Gerace. Ha fortemente voluto far germogliare l’antico rito bizantino in una terra, la Calabria, che ha ospitato molti santi bizantini. È una scelta che simbolicamente richiama la bellezza e la grande ricchezza di una terra carica di spiritualità e preghiera. È frutto di una nostalgia di quel passato o chiave d’accesso per il futuro?

Non è nostalgia di passato, in quanto io non l’ho conosciuto come tale. L’ho conosciuto come presente. Ho conosciuto il mondo e la Chiesa orientale quando ero a Parigi, quindi non in Calabria. Quando sono arrivata in Calabria – dopo la conversione – ho visto che qui c’erano le radici del mio battesimo. Ho cercato di vederle come una realtà presente, anche se sommersa. E le ho incontrate al presente, ancora, anche a Cosenza, avendo lì trascorso un breve periodo prima di venire a Gerace. Lì è presente un respiro orientale grazie all’Eparchia di Lungro. È una realtà di quelle radici che sembravano morte ed invece ci proietta nel futuro verso il mistero della comunione con le chiese orientali e con tutte le chiese divise. Proprio perché questa è la vocazione della nostra chiesa di Calabria, quella di essere un ponte tra le chiese di oriente e occidente.

Sappiamo che Lei ha studiato e vissuto a Parigi, ha fatto anche un percorso di ricerca in ambito universitario. Cosa l’ha spinta a lasciare la ricerca scientifica per intraprendere la ricerca spirituale?

Quel che mi ha spinto a lasciare la ricerca scientifica è la stessa cosa che mi aveva spinto ad iniziare. Considera che ho lasciato la fede a 15 anni, abbandonando una vocazione che era già chiaramente monastica che però non ho avuto il coraggio di assumere. Quella ricerca di senso, di verità e di bellezza l’ho proiettata sulla cultura. Quindi era la stessa ricerca in un’altra dimensione. Ovviamente, ogni volta che ottenevo un risultato – che non dipendeva dal fatto che fossi particolarmente “secchiona”, in quanto non mi interessava lo studio per lo studio – proprio a Parigi dove avere dei risultati era molto duro, mi rendevo conto di due cose: la prima, che c’era qualcosa che mi impediva di legarmi, perché ovviamente non era quello che cercavo, io cercavo un senso, non cercavo un ruolo; la seconda cosa era che in tutto ciò che ho ottenuto non c’era, se non una briciola, di quello che cercavo, quindi mi rendevo conto che dovevo proseguire verso un’altra direzione. Quando è avvenuta la conversione, nel 1987 – considerato che dal 1962 ero lontanissima dalla fede e dalla Chiesa – ho ritrovato il senso che cercavo, e questo senso mi ha permesso di comprendere che la mia vocazione, che ritrovavo come quando l’avevo lasciata, mi riportava nel paese da cui ero partita da bambina come migrante. Lasciare quella che poteva sembrare una carriera, in prospettiva futura, poteva essere un problema, che non mi sono però posta. La scelta era già fatta. Non ho provato dispiacere per aver lasciato l’insegnamento, perché io cercavo altro… Di tante persone, quando rinunciano a qualche risultato della loro vita per una scelta di vita più radicale mi accorgo che fanno una certa fatica, perché la rinuncia è una fatica, quindi hanno un merito. Io non ho neanche questo merito, perché non mi sono accorta di aver rinunciato… è stato un seguire qualcosa che si realizzava verso un’altra prospettiva.

Possiamo dire che è lei la fondatrice delle monache dell’“eremo dell’Unità”?

In realtà, potrei dire che non sono fondatrice, in quanto, il fatto che si tratti di un’esperienza di rinascita del monachesimo Italo-Greco è una continuità, di conseguenza non è una fondazione. Si tratta in realtà della fondazione di un eremo. Questo è vero. Ma non potrei neanche dire che l’eremo sia legato ad altre monache, perché è vero che ci sono alcune sorelle con cui durante questi anni ho fatto un cammino, un percorso di formazione e di ricerca, ma ognuna, un po’ come gli eremiti di queste valli nel passato, vive la sua esperienza in un contesto diverso dall’eremo. In altri eremi sparsi, che possono essere case in un paese, un piccolo santuario in un altro posto … e sono in ricerca in quanto sono giunte a questa realtà da poco. Però è vero che si tratta di una realtà che esiste: una fraternità che fa riferimento all’eremo, ma in cui ogni sorella cammina con le sue gambe. Ognuna ha il suo modo di essere nel mondo. Tanto più in quanto si tratta di donne mature – non ragazze – che hanno una loro storia e una loro personalità già ben definite; ma che ci sia una spiritualità delle monache dell’Unità non c’è dubbio! In realtà se questo vuol dire “fondare” non lo so. Fondare è una parola impegnativa dal punto di vista canonico. E io, confesso, non mi pongo da questo punto di vista…

L’abito che indossa l’ha fatto Lei, o l’ha ripreso da un particolare ordine?

All’inizio è stato ripreso da un’esperienza di vita monastica a cui sono molto legata. È stata un po’ la madre del mio cammino monastico in occidente. È la piccola famiglia dell’Annunziata fondata nel 1956 da don Giuseppe Dossetti. Da loro ho imparato tantissimo, in particolare l’ascolto della Parola. Tutta la loro vita è basata sulla Scrittura e sul lavoro. L’ispirazione è chiaramente benedettina, ma don Dossetti, che aveva un grande amore verso l’oriente, manteneva dei legami con i monasteri ortodossi, tanto da mandare i suoi monaci e le monache ad istruirsi da loro dicendo <<andate da loro ad imparare cos’è il monachesimo>>. Loro si ispiravano per il colore dell’abito al colore delle rocce e delle montagne del deserto di Giuda che è questo color “ocra” – componente essenziale dell’iconografia! Ed io l’ho adottato, insieme al velo volutamente simile a quello delle monache ortodosse, con la differenza che, su invito di Mons. Bregantini (allora vescovo di Locri-Gerace), che vedendomi sempre con il velo nero, mi diceva: <<ma lo sai che da noi c’è bisogno anche del segno della luce?>>, ho detto: è vero! Ecco perché, da Pasqua all’Esaltazione della Santa Croce, solennità del 14 settembre, il velo è bianco, in quanto segno di luce e risurrezione, e torna ad essere nero fino alla Pasqua successiva, perché è un colore che indica l’esperienza di una penitenza e di un lutto necessari per l’unità ancora incompiuta della Chiesa. E questo oggi è necessario, veramente necessario!

Lei riesce ad unire l’ufficio bizantino (come preghiera) e l’approfondimento della parola (Lectio Divina) secondo la tradizione benedettina. Riesce ad unire Oriente ed Occidente non solo simbolicamente ma anche praticamente. La Chiesa è una sola, ma molte sono le espressioni all’interno di essa. Come impostare secondo Lei un discorso davvero ecumenico? Come ritrovare la vera comunione?

Papa Francesco sta dando proprio queste risposte. È il dialogo della carità. Io credo che il dialogo teologico sia necessario ma può essere un abbaglio. Nel senso che i punti di dissidio secondo una prospettiva teologica-ecclesiologica, in realtà sono già stati affrontati e sciolti. Purtroppo, nella maggior parte dei casi si finge che questo non sia mai successo. Si finge che sia necessario ancora discuterne. Non c’è più da discutere.  Se noi sappiamo fare un’autocritica storica capiremo che la Chiesa ha dato una lettura della sua presenza nel mondo che non era scevra da considerazioni storiche e politiche, così com’è stato nell’oriente riguardo al legame con l’impero. Se ognuno di noi riuscisse a fare un esame delle “intenzioni storiche” si renderà conto che non sono più valide quelle motivazioni. Lo scisma stesso non esiste. È un falso. Quando il Card. Umberto Di Silva Candida ha portato la scomunica del Papa a Costantinopoli (1054) per consegnarla al Patriarca, nel frattempo il Papa era morto e quell’atto era invalido! Quindi, noi per secoli ci siamo basati su un atto che non è valido. Chi deve saperlo lo sa! Però, siccome tale atto ha dato, per così dire, l’ultima stoccata ad un dissidio che durava da secoli, allora… è su questo che bisogna lavorare. Quindi, se non c’è un abbandono fiducioso all’opera dello Spirito che tende sempre più alla comunione noi non riusciremo, né col dialogo teologico né con le correzioni giuridiche, a ritrovare la comunione. Per questo è necessario il dialogo della carità, che presuppone l’attribuire all’altro – in questo caso da parte nostra alle Chiese orientali, e viceversa – la validità della fede, la rettitudine delle intenzioni, perché se continuiamo a basare il rapporto sulla diffidenza reciproca ogni altro sforzo è inutile. Le identità entrano in contatto e sono capaci di stabilire una circolazione di vita all’interno della Chiesa universale. Ricordate cosa disse il Patriarca Atenagora in questo senso? <<la Chiesa è una! E all’interno di questa Chiesa c’è un calice, in quel calice il Signore si dona totalmente. Noi invece, proprio a partire dal calice disputiamo sulle differenze. È come se noi cacciassimo il Signore dal calice. Mentre in realtà Lui si dona affinché noi versiamo questo calice nel mondo>>. Questo non avviene a causa della divisione. Ma la divisione è nel cuore, da lì bisogna ripartire: dalle nostre reciproche paure di perdere la nostra identità. Il dialogo della carità è l’unica via! Serve una resa, sì, una resa!  Di fronte al fratello mi arrendo perché è mio fratello, non perché dico “ho torto”. La resa vuol dire “desidero che tu non mi veda come un nemico”, ma devo cominciare io a non vedere lui come un nemico. Questo sta facendo il Papa.

Le icone che lei realizza sono un concentrato di bravura tecnica e preghiera profonda. Che significato hanno e quali le caratteristiche che un’icona deve necessariamente avere?

Certamente è richiesta una base di preparazione che non può essere improvvisata. Non si può essere autodidatti. C’è bisogno di una scuola e di un maestro. Però è necessario che il maestro lo sia anche di fede e di vita. Il mio maestro era un iconografo gesuita di rito orientale. In realtà, se non si riesce a ricevere una tecnica insieme con un’esperienza di fede, la scuola di iconografia è paragonabile alle altre che danno un metodo e basta. Nell’icona quello che conta è l’esperienza personale del mistero che si sta rappresentando. Una persona può anche essere bravissima dal punto di vista tecnico, ma se non ha un’esperienza personale di fede, di quella luce che cerca di restituire… l’icona potrebbe essere un’opera perfetta ma è come se fosse una porta che fa fatica a schiudersi. Ci sono icone che aiutano a pregare, ed altre che non aiutano a pregare. Le icone in cui si avverte la pregnanza di una presenza, che è restituita proprio dall’intensità dell’esperienza di fede, aiutano a pregare! L’intensità di uno sguardo nell’icona è ciò che attrae. Perché l’icona ti guarda. Se tu riesci a trasmettere la forza di questo sguardo, sai che chi si ferma di fronte all’icona si sente guardato e quindi già prega anche se non lo sa! Per questo è un servizio complesso. Io non sono tecnicamente molto brava. L’icona è anche una lotta, affinché quella luce emerga. I colori sono come la terra, la terra come fango, e come fai a rappresentare quella luce nel fango? Eppure rappresenta proprio il cammino dell’uomo. Vivere tutto questo in maniera intensa e personale vuol dire vivere il mistero della Chiesa e quindi restituire un’immagine che parla. In questo non sempre si riesce. L’iconografo non è un pittore che fa delle opere secondo l’ispirazione personale, ma è qualcuno che obbedisce ad un ministero della Chiesa e che rappresenta i misteri secondo la tradizione. È un servizio alla Chiesa, alla fede, alla speranza.

Cos’è il silenzio? Può essere condiviso con altre persone all’interno dello stesso luogo o la solitudine dell’eremo è presupposto essenziale per viverlo pienamente?

Il silenzio è semplicemente l’ascolto. Se uno ascolta, tace. Quindi per ascoltare è necessario tacere. Il silenzio non è mutismo. È la capacità di fare silenzio proprio perché c’è qualcuno o qualcosa da ascoltare che può anche essere la voce della natura. In realtà il silenzio di un eremo è l’ascolto di Qualcuno, ma è anche l’ascolto di altri, dei fratelli. Il silenzio è uno stare davanti a qualcuno che ti parla. Non è una forma di passività né un ritiro dalla realtà. La forma più grande di silenzio è proprio quella che ti mette di fronte al silenzio di Dio. Siamo due silenziosi uno davanti all’altro e si ascolta il respiro, si sente quasi battere il cuore di Dio per le sue creature e per il mondo. Il silenzio, a volte, può essere l’assenza di quella parola che è la parola stessa di Dio, perché in alcuni momenti in cui tutto tace, anche la parola di Dio tace. Questa è la preghiera profonda. In un eremo la solitudine è condizione necessaria per il silenzio, però non è una condizione rigida, in oriente per esempio, gli eremi non sono sempre luoghi in cui si trova una persona sola, ma spesso c’è una formula intermedia definita della “skiti” che presenta un gruppo di eremiti. Come stanno insieme gli eremiti? Il silenzio in questo caso riguarda la comunicazione “essenziale”. Si, è anche possibile custodire il silenzio con altri, come fanno i certosini, a cui sono molto legata. Ma nello stesso tempo è più difficile, ma è bello in quanto diventa un silenzio di comunione.

Qual è la fatica più grande della vita eremitica e quale allo stesso modo la maggiore gioia?

La fatica più grande è la lotta contro lo scoraggiamento. La vita eremitica può portare allo scoraggiamento non perché la solitudine porta a questo, ma perché questo tipo di solitudine porta in sé un rischio che è quello della tentazione di vedersi come estranei, esclusi, stranieri, incompresi… la realtà può anche essere questa, ma non conta, quello che conta è che tu ti senta appartenere alla famiglia umana, non chiedi alla famiglia umana di riconoscere te come suo membro. Sei tu che devi riconoscere loro. La fatica accresce anche con la relazione al territorio. Ed il nostro è un territorio difficile, da cui nasce la diffidenza le calunnie… perché la vita eremitica è incomprensibile – e talvolta alcuni sono tentati di spiegarla come una condanna agli arresti domiciliari… Questo rapporto può appesantire. L’altro aspetto è l’età che avanza. La difficoltà sempre più grande di assumere determinate fatiche. L’orto che non riesci più a fare, la tua difficoltà a curare da sola il contesto esterno. Un eremita non è mai giovane, di solito viene da una vita o comunitaria o vissuta intensamente. Io stessa ho vissuto per alcuni anni con delle sorelle a Cosenza. È la sua stessa vita, quella vissuta, che un eremita porta con sé nell’eremo. Non essendo giovane si trova prima o poi al limite delle proprie forze, ed è per questo che la lotta contro lo scoraggiamento è molto importante. Richiede un abbandono ed una fiducia crescente, e la preghiera costante è quella della povertà che è abbandono totale. Occorre mantenere la coscienza libera da tutti quei legami con situazioni e persone che cercano in parte di condizionarla. C’è un solo antidoto, la preghiera! La maggiore gioia è il fatto di scoprire che la tua povertà è una grande gioia! San Francesco d’Assisi spiegava la perfetta letizia a fra Leone come somiglianza al Signore in termini di povertà e di rifiuto subìto nella pace interiore.

La Sacra Scrittura si studia e si ascolta, si legge e si medita. Come si vive pienamente la Parola? Come approcciare ad essa?

Si è vero, ma soprattutto si riceve! Si riceve come un dono di pienezza di vita in cui il Signore consegna se stesso all’interno del nostro linguaggio. Consegna qualcosa della sua verità del suo essere, attraverso il nostro linguaggio. Lui fa questo passo ed anche a noi è richiesto farlo attraverso il linguaggio, per incontrare chi ci parla non in modo cattedratico, come un maestro o un filosofo. Il Signore non ha delle idee da trasmetterci, ma vuole farci partecipare alla pienezza della sua vita e ci dimostra come nella nostra vita Lui è presente. La conoscenza della Scrittura e il discernimento ci aiutano a ritrovare noi stessi in un contesto che a prima vista sembra impossibile. Per esempio, come faccio io a ritrovarmi nelle storie dell’AT? Se io considero la Parola e tutta la Scrittura come profezia capisco che è per me nella misura in cui mi ritrovo in una situazione biblica che mi parla della mia stessa storia. Le grandi figure mi danno delle indicazioni. Pensa a Caino e Abele, è straordinario quello che si può imparare dalla relazione tra i due. È attualissimo. Mi aiuta a vedere dove sono. Se io per caso ho fatto mio il ragionamento di Caino, la Parola mi mette con le spalle al muro. La Scrittura è, come dice il Salmo 119 “Lampada per i miei passi è la Tua parola, luce sul mio cammino…” mi fa vedere dove sto andando. Oltre a darmi la chiave d’accesso al cuore di Dio, in quanto Lui manifesta le sue intenzioni verso di me attraverso la Parola.

articolo del giugno 2016 – autore Domenico De Angelis – https://it.zenit.org/

Dopo l’incontro con gli eremiti E’ nata una collaborazione con Madre Mirella Muià

Cari amici, nei giorni scorsi siamo stati invitati e abbiamo partecipato al convegno degli eremiti che, su iniziativa di Mons. Giancarlo Bregantini, Arcivescovo di Campobasso-Boiano, si è tenuto presso il Santuario dell’Addolorata a Castelpetroso.

Da alcuni anni, gli eremiti italiani si incontrano ogni due anni per conoscersi e per un proficuo scambio di esperienze. Storie, volti, sguardi e parole che, nel confronto, si fanno note di musica e canto dello Spirito.

Il respiro di Dio si fa storia, entra con mitezza se accolto, penetra nelle ossa e nel cuore e ispira pensieri, parole, gesti e capacità di ascolto profondo.

Anche una coppia può tentare questa strada; anche una coppia di sposi può cercare di percorrere i sentieri impervi e inesplorati che raccontano con la vita il mistero di Dio; anche una coppia che ama il silenzio può cercare di entrare e trasformare la propria casa in un eremo: una piccola realtà di questo nostro mondo sempre più complicato e complesso.

Qui sotto pubblichiamo alcune immagini degli Amici eremiti con i quali abbiamo condiviso questi giorni insieme. Tra i nostri amici più cari Madre Mirella Muia, di Gerace, una delle eremiti che Padre Giancarlo Bregantini insediò nella locride quando era il Vescovo di Locri-Gerace. Madre Mirella, per tanti anni atea, percorre ora strade e sentieri di una libertà dello Spirito. Incontra persone e testimonia, nel silenzio, la presenza di Dio che Ama. Madre Mirella da tempo condivide la sua meditazione sulla Parola attraverso dei gruppi whatsapp.

Da anni siamo suoi amici e nei prossimi giorni avvieremo con lei una collaborazione ancora più forte e intensa. Su questo blog, infatti, in sintonia con lei pubblicheremo gli audio delle sue meditazioni che ci aiuteranno ad ascoltare in maniera più intensa la Parola.

La ringraziamo fin da subito per questa sua disponibilità a fare comunione con il nostro piccolo eremo di famiglia Aquila e Priscilla.

Intanto per iniziare a conoscerla meglio possiamo leggere l’intervista che il nostro amico Roberto Zanini, giornalista di Avvenire ha pubblicato il 27 ottobre 2020 dal titolo: “La monaca eremita. Mirella Muià: “Dio non è un’idea ma pienezza di vita”.

Madre Mirella Muià è anche una bravissima iconografa. Ecco qualche altra notizia sulla sua storia e sulla fondazione dell’Eremo dell’unità dove ha voluto far germogliare l’antico rito bizantino in una terra, la Calabria, che ha ospitato molti santi bizantini. : “Nel Silenzio dell’Eremo la Parola è vita. La storia di suor Mirella”.

Tra gli altri amici eremiti che abbiamo incontrato c’è Antonella Lumini. Per conoscerla meglio ecco un’intervista firmata sempre dal giornalista Roberto Zanini che ha realizzato molti servizi incontrando tante donne e uomini che testimoniano il silenzio: “Lumini. Lo Spirito soffia. E’ tempo di rischiare”. Per approfondire la testimonianza della Lumini ecco un suo scritto: “Voce del silenzio e pustinia”

Franca e Vincenzo, eremo di famiglia camaldolese Aquila e Priscilla

Noi con Mons. Padre Giancarlo Bregantini
Noi con Madre Mirella Muià, dell’Eremo dell’Unità di Gerace
Qui insieme ad Antonella Lumini,: “Una voce del silenzio e pustinia
Il Santuario dell’Addolorata di Castelpetroso

Piccola rassegna stampa del Convegno degli eremiti

SERVIZI VIDEO

16 settembre 2021 TG Molise

17 settembre 2021 TG Molise

17 settembre 2021 TELEMOLISE

18 settembre 2021 TG Molise

19 settembre 2021 TG Molise

STAMPA

16 settembre 2021 Giornale del Molise

17 settembre 2021 Giornale del Molise

Chiese vuote e assenza di Dio

Si racconta che in piena pandemia in un piccolo paese degli Appennini un’anziana si stava recando in chiesa per pregare. Pochi metri prima di entrare nella chiesa del paesino ha incrociato una sua conoscente e nel salutarla le ha chiesto: “Dove vai?”. La conoscente, con fare frettoloso, le risponde: “Torno a casa. La chiesa è vuota. Non c’è nessuno”. L’anziana di getto replica: “E che è successo? Anche Gesù se n’è andato?”.

Può essere che anche Gesù Cristo è andato via? Oppure siamo noi che non ci accorgiamo della sua presenza?

Il granello di senape

Gesù annuncia che il Regno di Dio è già arrivato. Magari a noi non sembra eppure è la verità. Spesso abbiamo l’impressione che Dio sia assente, silenzioso e non ascolti i nostri appelli e le nostre richieste. Vediamo accadere molte cose senza capire perché il Signore le permetta. In verità il Regno è un continuo accadere e il male ha già perso la sua guerra contro il bene anche se, purtroppo, continua a manifestare la sua presenza procurandoci sofferenza. Dobbiamo cercare di resistere e ribadire a noi stessi che il bene vince sempre.

Ogni giorno, se stiamo attenti, possiamo scoprire come la logica del bene che vince il male è sempre all’opera. Non ci meraviglia forse osservare come un piccolo seme o un pizzico di lievito sono capaci, il primo, di diventare un grande albero e il secondo di far crescere l’impasto per il pane?

Accogliere il Regno di Dio nella nostra vita qui e adesso significa restare stupiti di fronte al miracolo della vita in ogni sua forma e contemplare come il piccolo, il semplice e il sobrio siano lo stile attraverso il quale Dio agisce nella storia.

Franca e Vincenzo osb-cam ♥️

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,31-35

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
«Aprirò la mia bocca con parabole,
proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».

Parola del Signore.

Cinque pani e due pesci

Non c’è nulla da comprare, Gesù invita a dare e non basta dare il pane, ma occorre farsi pane. Gesù lo ha fatto e invita tutti noi ad imitarlo. Egli ha dato tutto se stesso (5 pani più 2 pesci fa 7 che significa “tutto quello che si ha”). Ma non basta. Gesù ordina che tutti si siedano e lo fa per poter servire loro il pasto facendoli sentire veri signori. È così che Gesù prepara e inaugura il nuovo culto eucaristico. Mentre prima era l’uomo ad offrire a Dio, adesso è il Signore che si fa pane spezzato e si offre per l’uomo e lo serve come un vero Signore.

“Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo”, significa comunicazione divina, “recitò la benedizione”, benedire significa che quello che si ha non è più possesso proprio, ma è dono ricevuto, e come tale condiviso per moltiplicare gli effetti della creazione.
“Spezzò i pani e li diede ai discepoli”, gli stessi gesti che Gesù compirà nell’ultima cena quando prende i
pani, benedice, li spezza, li dà ai discepoli, “e i discepoli alla folla”. I discepoli non sono i proprietari di questo pane, non sono amministratori, ma sono i servitori. Il loro compito è prendere questo pane,
che raffigura l’eucaristia, e distribuirlo alla folla, senza mettere condizioni e senza mettere limiti.

Franca e Vincenzo osb-cam ♥️

Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 6,1-15

In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.

Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».

Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.

Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.

E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Parola del Signore.