Quanto e’ difficile amare.

Quanto è difficile amare. Spesso si confonde l’amore con il possesso. Più spesso ancora ci si arroga il diritto di conoscere il cuore dell’altro ed è ancora più comune trovare chi, con leggerezza, giudica il cuore dell’altro. Ebbene il Vangelo di oggi ci parla di amare il prossimo come noi stessi e non di un generico “voler bene”. Per comprenderne la differenza ci affidiamo ad un noto  passo del “piccolo principe” e dopo aver riflettuto proviamo a decidere se amare come ci suggerisce Gesù nel vangelo di oggi Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso».)o se vogliamo voler bene oppure se preferiamo restare indifferenti di fronte al nostro prossimo che soffre o, peggio ancora, essere noi la causa della sua sofferenza.

Franca e Vincenzo osb-cam

Dal Piccolo Principe

Ti amo» – disse il Piccolo Principe.

«Anche io ti voglio bene» – rispose la rosa.

«Ma non è la stessa cosa» – rispose lui. – «Voler bene significa prendere possesso di qualcosa, di qualcuno. Significa cercare negli altri ciò che riempie le aspettative personali di affetto, di compagnia. Voler bene significa rendere nostro ciò che non ci appartiene, desiderare qualcosa per completarci, perché sentiamo che ci manca qualcosa.»

Voler bene significa sperare, attaccarsi alle cose e alle persone a seconda delle nostre necessità. E se non siamo ricambiati, soffriamo. Quando la persona a cui vogliamo bene non ci corrisponde, ci sentiamo frustrati e delusi.

Se vogliamo bene a qualcuno, abbiamo alcune aspettative. Se l’altra persona non ci dà quello che ci aspettiamo, stiamo male. Il problema è che c’è un’alta probabilità che l’altro sia spinto ad agire in modo diverso da come vorremmo, perché non siamo tutti uguali. Ogni essere umano è un universo a sé stante.

Amare significa desiderare il meglio dell’altro, anche quando le motivazioni sono diverse. Amare è permettere all’altro di essere felice, anche quando il suo cammino è diverso dal nostro. È un sentimento disinteressato che nasce dalla volontà di donarsi, di offrirsi completamente dal profondo del cuore. Per questo, l’amore non sarà mai fonte di sofferenza.

Quando una persona dice di aver sofferto per amore, in realtà ha sofferto per aver voluto bene. Si soffre a causa degli attaccamenti. Se si ama davvero, non si può stare male, perché non ci si aspetta nulla dall’altro. Quando amiamo, ci offriamo totalmente senza chiedere niente in cambio, per il puro e semplice piacere di “dare”. Ma è chiaro che questo offrirsi e regalarsi in maniera disinteressata può avere luogo solo se c’è conoscenza.

Possiamo amare qualcuno solo quando lo conosciamo davvero, perché amare significa fare un salto nel vuoto, affidare la propria vita e la propria anima. E l’anima non si può indennizzare. Conoscersi significa sapere quali sono le gioie dell’altro, qual è la sua pace, quali sono le sue ire, le sue lotte e i suoi errori. Perché l’amore va oltre la rabbia, la lotta e gli errori e non è presente solo nei momenti allegri.

Amare significa confidare pienamente nel fatto che l’altro ci sarà sempre, qualsiasi cosa accada, perché non ci deve niente: non si tratta di un nostro egoistico possedimento, bensì di una silenziosa compagnia.

Amare significa che non cambieremo né con il tempo né con le tormente né con gli inverni.

Amare è attribuire all’altro un posto nel nostro cuore affinché ci resti in qualità di partner, padre, madre, fratello, figlio, amico; amare è sapere che anche nel cuore dell’altro c’è un posto speciale per noi. Dare amore non ne esaurisce la quantità, anzi, la aumenta. E per ricambiare tutto quell’amore, bisogna aprire il cuore e lasciarsi amare.

«Adesso ho capito» – rispose la rosa dopo una lunga pausa.

«Il meglio è viverlo» – le consigliò il Piccolo Principe.

Il vero problema e’ la mancanza di poverta’

«La vita consacrata inizia a corrompersi dalla mancanza di povertà». Papa Francesco lo afferma nella cattedrale bolognese di San Pietro, incontrando, in questa giornata di visita nel capoluogo dell’Emilia Romagna, sacerdoti, religiosi, seminaristi e diaconi locali. «Se una congregazione perde i suoi averi, io dico “Grazie Signore”».

È presente anche monsignor Bettazzi, testimone storico del Concilio Vaticano II , vescovo emerito di Ivrea, bolognese di origini materne; a Bologna è stato ordinato prete ed è diventato cittadino onorario. Francesco e Bettazzi scherzano insieme per qualche istante prima del discorso papale. E l’arcivescovo di Bologna monsignor Matteo Maria Zuppi lo citerà nel suo saluto introduttivo a Francesco. Esordisce il Papa: «È una consolazione stare con quelli che portano avanti l’apostolato della Chiesa; i religiosi cercano di dare testimonianza di anti-mondanità».

Al Pontefice vengono poste due domande: una sulla fraternità tra sacerdoti, l’altra sulla «psicologia della sopravvivenza»; a entrambe risponde senza testi scritti, tranne qualche appunto che prende anche mentre parla lui stesso. Afferma il Papa: «A volte, scherzando tra religiosi diocesani e non, i religiosi dicono: “Io sono dell’ordine fondato dal santo tale…”; ma qual è il centro della spiritualità del presbitero? – si domanda il Papa – La diocesaneità». Essere presbiteri è «una esperienza di appartenenza, si appartiene a un corpo che è la diocesaneità». Questo «significa che tu», prete, religioso, «non sei un libero», non ci sono figure di «libero», come nel calcio. Invece «sei un uomo che appartiene a un corpo, che è la diocesaneità, il corpo presbiterale». Tutto ciò «lo dimentichiamo tante volte, diventando singoli, troppo soli, col pericolo di divenire infecondi o con qualche nervosismo, per non dire che si diventa nevrotici, un po’ zitelloni».

Un prete «solo che non ha rapporto con il corpo presbiterale, mah», dice con amarezza. Dunque è importante «far crescere il senso della diocesaneità, che ha anche una dimensione di sinodalità col vescovo». Il corpo diocesano «ha una forza speciale, deve andare avanti sempre con la trasparenza, la virtù della trasparenza, il coraggio di parlare, di dire tutto». E anche con «il coraggio della pazienza, di sopportare gli altri. È necessario».

Sul coraggio di parlare chiaro e sull’opposta comodità di non esporsi, racconta: «Mi ricordo quando ero studente di Filosofia, e un vecchio gesuita furbacchione mi diceva: “Se vuoi sopravvivere nella vita religiosa, pensa chiaro, ma parla oscuro”». Aneddoto che suscita un forte sorriso tra i presenti in Cattedrale. Francesco osserva come sia «triste quando un pastore non ha orizzonte del popolo di Dio, non sa che cosa fare»; ed è «molto triste quando le chiese rimangono chiuse, quando si vede una scheda nella porta: “Aperta da tale ora a tale ora”, per il resto del tempo non c’è nessuno, le confessioni solo per poche ore. Ma questo non è un ufficio, è il posto dove si viene a onorare il Signore, e se il fedele trova la porta la chiusa come può fare?». A volte «pensa alle chiese sulle strade popolose, che restano chiuse: qualche parroco ha fatto esperienza di aprirle, sempre con un confessore disponibile: e il confessore non finisce di confessare», talmente arriva gente, perché «sempre la porta è aperta», e la luce del confessionale resta sempre accesa.

Poi il Vescovo di Roma parla di «due vizi che ci sono dappertutto». Uno è «pensare il servizio presbiterale come carriera ecclesiastica». Francesco si riferisce agli «arrampicatori»: essi sono una «peste, non presbiterio. Gli “arrampicatori”, che sempre hanno le unghie sporche, perché sempre vogliono andare su. Un arrampicatore è capace di creare tante discordie in seno al corpo presbiterale: pensa alla carriera, “adesso mi danno questa parrocchia, poi me ne daranno una più grande”, e se il vescovo non gliene dà una abbastanza importante, si arrabbia: “A me tocca…” a te non tocca niente!», esclama. Poi aggiunge: «Gli arrampicatori fanno tanto male, perché sono in comunità ma pensano solo ad andare avanti loro».

L’altro vizio: «Il chiacchiericcio: “Si dice, hai visto”, e così la fama del fratello prete finisce sporcata, si rovina. “Grazie a Dio che non sono come quello”, questa è musica del chiacchiericcio». Il carrierismo e il chiacchiericcio sono due vizi del «clericalismo», afferma Francesco. Invece, un pastore è chiamato al «buon rapporto col popolo di Dio, a cui deve stare davanti per indicare il cammino»; deve stargli «in mezzo per aiutare» soprattutto «nelle opere di carità; dietro per guardare come va».

Credere nella «“psicologia della sopravvivenza” – prosegue – significa aspettare la carrozza funebre, che porta il nostro istituto» alla chiusura. Credere alla psicologia della sopravvivenza conduce «al cimitero». Si tratta di «pessimismo, e non è da uomini e donne di fede, non è atteggiamento evangelico, ma di sconfitta». E mentre magari «aspettiamo la carrozza, ci arrangiamo come possiamo, e prendiamo dei soldi per essere al sicuro. Questo porta a mancanza di povertà». La psicologia della sopravvivenza è «cercare la sicurezza nei soldi; si ragiona, si sente a volte: “Nel nostro istituto siamo vecchie e non ci sono vocazioni ma abbiamo dei beni per assicurarci la fine”, e questa è la strada più adatta per portarci alla morte». La sicurezza «nella vita consacrata non la dà l’abbondanza dei soldi, ma viene da un’altra parte», da Dio. Alcune congregazioni «che diminuiscono mentre i suoi beni crescono, con religiosi attaccati ai soldi come sicurezza: ecco la psicologia della sopravvivenza».

Il problema «non è tanto la castità o l’obbedienza, ma nella povertà. La vita consacrata inizia a corrompersi dalla mancanza di povertà». Sant’Ignazio di Loyola «chiamava la povertà madre e muro nella vita religiosa: madre che genera e muro che difende dalla mondanità». Senza questo atteggiamento volto alla povertà e al disinteresse, non si «scommette nella speranza divina». I soldi «sono la rovina della vita consacrata». Ma Dio è buono, «perché quando una congregazione inizia a incassare, manda un economo che distrugge tutto». Rivela il Papa, sorridendo: «Quando sento che una congregazione perde i suoi averi, io dico “Grazie Signore».

Il Papa esorta ad «un esame di coscienza sulla povertà, sia personale che dell’istituto». Sulla mancanza di vocazioni, bisogna «chiedere al Signore: “Che cosa succede nel mio istituto? Perché manca quella fecondità? Perché i giovani non sentono entusiasmo per il carisma del mio istituto? Perché ha perso la capacità di chiamare?». Per Francesco, il «cuore» del problema è «la povertà». Di qui un incoraggiamento: «La vita consacrata è uno schiaffo alla mondanità spirituale. Andate avanti».

ARTICOLO PUBBLUCATO IL 1 OTTOBRE 2017 SUL QUOTIDIANO “La Stampa”.

 

 

 

“La coscienza e basta”

“Dio non ci giudicherà sulla religione o sul vangelo ma sulla coscienza. Colui che in coscienza fa il bene è accetto a Dio.

La coscienza e basta!!!
Padre Colombano, monaco camaldolese ed eremita

Ieri sera all’età di 103 anni e 90 di vita monastica padre Colombano, monaco camaldolese eremita di Montegiove è ritornato alla casa del Padre.
Padre Marino che nel monastero di Montegiove ha il compito speciale dell’accoglienza parlando di Colombano aveva detto: «È il nonno saggio, colonna portante dell’eremo. Nonostante viva nel suo raccoglimento e solitudine, è l’anima del luogo».

Padre Colombano Vuilleumier, Marius Renè (battesimo), nasce il 7 aprile 1914 – Holderbank (Basilea) – Svizzera. Ancora giovanissimo, a circa 12 anni entra nella Congregazione dei Redentoristi. Viene ordinato presbitero il 30 luglio 1939. Il 16 ottobre del 1940 entra nella Congregazione Camaldolese, presso l’Eremo di Camaldoli, dove emette la professione solenne il 7 febbraio 1943. Agli inizi degli anni ’60 si trasferisce all’Eremo di Monte Giove. La sua scelta di solitudine non gli ha impedito di poter annunciare il Vangelo tramite i suoi libri e gli incontri con le persone. Accanto alla sua integerrima personale disciplina, i suoi occhi chiari e profondi rivelano dei tratti di ironia e umanità che lo rendono capace di vivere in pienezza ogni istante della propria giornata.

Cara/o amica/o se vuoi dici una preghiera per Padre Colombano che nella sua vita ha molto amato.

Franca e Vincenzo osb-cam

 

Terra, casa e lavoro

Terra, casa e lavoro sono le tre parole d’ordine che papa Francesco ha fatte sue incontrando i movimenti popolari impegnati in tutto il mondo contro la globalizzazione “motore di molteplici iniquità e ingiustizie” e che “privilegia il lucro e stimola la competizione”, provocando una “concentrazione del potere e delle ricchezze” da cui dipendono le crescenti disuguaglianze, l’esclusione e lo sfruttamento di miliardi di persone. Queste parole ed altre ancora sono il pensiero che papa Francesco ha espresso  nel suo primo incontro con i movimenti popolari a Roma. Tra le altre cose, ebbe a dire: “È strano, ma se parlo di questo per alcuni il papa è comunista. Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottare, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa”.
Ed eccolo il nostro papa accanto ai poveri, agli esclusi, ai senza fissa dimora, agli ultimi, ai diseredati, ai nulla, agli emarginati, agli sfruttati di una società che ha smarrito il concetto vero di comunità, che si è fatta ancora più egoista e disuguale. Ad una società che sfrutta l’uomo, che vive dell’idea che business in business, che affari sono affari, che sta globalizzato miseria e sofferenza. Una società nella quale si è persa l’idea del bene comune, dove la paura è diventata il mezzo per opprimere e schiacciare interi popoli che si vogliono rinchiudere in recinti ben serrati. Il papa invita alla mobilitazione i poveri del mondo per ridare dignità a tutti gli uomini e rivolgendosi ai cristiani li sprona a non isolarsi in una sorta di “casta di diversi” e a non essere indifferenti. C’è bisogno di un nuovo umanesimo e Francesco fa appello ai credenti perché si prenda coscienza dell’opzione preferenziale per i poveri è si proceda anche ad una rivisitazione profonda della dottrina sociale della Chiesa.

Franca e Vincenzo osb-cam

Il mare, il vento, la bussola e i remi

L’immensità del mare evoca l’immagine del Dio infinito, aiuta la contemplazione e il perenne diffondersi delle onde sembra richiamare la continua agitazione dell’uomo. Si sa che “l’alta marea cancellerà le mie orme e il vento dissipera’ la schiuma delle onde, ma il mare per sempre rimarrà ” Gibran.

E a proposito di vento ricordiamo con Socrate che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare. E, lo stesso mare appare una chiara metofora della vita nella quale per sapersi orientare occorre “la bussola” che, come dice un antico proverbio, “non ti dispensa dal remare”.

Cristo è la nostra bussola che ci invita a remare e se, con libertà, lo seguiamo non saremo mai sconfitti. Egli ha vinto il mondo (il male) grazie alla sua Potenza incomparabile.

E allora, apriamo gli occhi del nostro cuore per vedere  «qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi» (1,19). Più , quindi, riusciamo a contemplare, più rafforziamo «l’uomo interiore» (3,16), e, perciò, la nostra capacità  di fare scelte buone. Questo, infatti, qui all’eremo,  è il tempo di fare scelte importanti. Si tratta di scelte radicali per scrollandoci di dosso , ormai, persone, situazioni e ambienti che si sono fatti davvero pesanti e opprimenti. Tutte cose che impediscono alla vita in Cristo di potersi esprimersi con pienezza. La libertà che Cristo ci ha donato non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo tradire.

Franca e Vincenzo osb-cam

Efesini 3,14-19

Per questo, piego le mie ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni stirpe nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati per il suo Spirito nell’uomo interiore, e che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori, radicati e fondati nell’amore, perché siate in grado di cogliere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate colmati, in vista dell’intera pienezza di Dio.

 

Non cederemo

Condividiamo con voi questa bellissima lettera di professione di fede alla vita nata in un’assemblea di sole donne domenicane. Vi suggeriamo di leggerlo con calma e lentamente. A noi appare un vero programma per la vita e la gloria di Dio.

*****     

 «Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri» (1 Re 21,3)

 

Siamo un gruppo di donne di differenti età ed esperienze di vita. Apparteniamo come religiose all’Ordine domenicano che da secoli ci ha lasciato un’unica eredità: la passione per l’umanità e il cosmo, insieme ad alcuni strumenti per prendercene cura, cioè la contemplazione, la parola condivisa, la sete della verità e il bisogno di mendicarla sempre e ovunque.

Tante volte abbiamo tradito queste intuizioni, ma nelle nostre più diverse esperienze la passione non è mai venuta meno così come non si è mai interrotto il legame con ogni realtà che ci ospita.
Abbiamo coscienza di essere un gruppo molto piccolo rispetto a tutte le donne del mondo e al resto dell’umanità, ma comunque siamo donne con l’esperienza di una ricerca quotidiana fatta di attenzione a ogni palpito della vita interiore, della storia e delle storie degli altri.

La nostra esperienza riguarda la relazione con il Mistero contemplato, ricercato e pensato tra di noi, negli altri e nell’ambiente. Tante volte abbiamo constatato che la speranza non è passiva attesa ma immaginazione, desiderio di ricercare sempre e insieme. L’esperienza di fede ci ha aiutato a intuire che più si ha sete e fame del divino, più si ha sete e fame di giustizia e pace: due possibilità che la storia ha e che nello scorrere del tempo e con lo sforzo dell’umanità riusciranno ad abbracciarsi. (Cfr. Sal 85,11). Per questo professiamo pubblicamente che non vogliamo svendere la preziosa eredità che ci è stata data.

  • Non cederemo fratelli, sorelle e cosmo a nessun sistema politico, economico o religioso, che sia contro di essi, che sia escludente, che crei divisione, che sia rigidamente gerarchico.
  • Non cederemo i giovani al potere subdolo del denaro, all’ignoranza voluta da chi li preferisce inerti, disoccupati, a chi li compra con inganno e invece di istruzione mette loro in mano armi e droghe.
  • Non cederemo le donne all’arroganza degli uomini e al loro disprezzo in ogni ambito: familiare, sociale, culturale e religioso.
  • Non cederemo i popoli ai mercanti di armi e a chi li costringe a usarle in cambio di un falso sviluppo per una nuova colonizzazione che li rende profughi ed esiliati.
  • Non cederemo la terra e le sue risorse, insieme a tutta la sua bella biodiversità, alle multinazionali e a chi le gestisce sotto la veste di benefattori.
  • Non cederemo la bellezza delle diversità umane a chi le vuole uniformare o escludere, in nome di falsi principi morali.
  • Non cederemo “l’anima” di nessun essere vivente a chi la vuole soffocare o a chi se ne vuole appropriare.
  • Non cederemo la bellezza né il sogno né il desiderio infinito.

Molti popoli e molti individui conoscono che cosa significa soffrire e vivere in stato di esilio, sentirsi privati dei propri sogni oltre che dei propri beni.

Dice un testo della sapienza ebraico-cristiana: Presso i fiumi di Babilonia, là sedevamo e anche piangevamo, ricordandoci di Sion. Sui salici in quella terra, avevamo appeso le nostre cetre […] Come potevamo cantare un canto del Signore su suolo straniero? (Sl 137,1-4)

In qualche modo, oggi, tutti siamo un po’ esiliati, un po’ stranieri, in parte schiavi e in parte liberi. Il nostri destini sono profondamente legati, al di là dell’essere credenti o non credenti, appartenenti a questo o quell’altro popolo, a questa o quell’altra religione. Siamo parte dello stesso cosmo ed esso a tutti appartiene; tutti siamo un po’ terra, piante, aria, acqua, mari, fiumi.

Dunque, se ai salici vogliamo appendere qualcosa, non permetteremo che si appendano gli strumenti della gioia; non permetteremo che si appendano gli strumenti di lavoro, i titoli di studio, i quaderni, i libri, le foto dei nostri familiari. Lasceremo invece appesi, gli strumenti di morte: le divise da militari e guerrieri, gli stivali e gli scarponi sporchi di sangue e ogni strumento violento. Lasceremo lì vicino le testate nucleari e gli aerei da guerra, insieme agli scheletri degli edifici della finanza mondiale, trasformandoli in resti da museo a testimonianza della stupidità umana.

Ci rendiamo conto che il nostro piccolo gruppo non ha nessun particolare potere e nessuna soluzione per portare avanti da solo queste possibili trasformazioni. Ciò che possediamo infatti è solo l’autorità dell’immaginazione che ci è data dalla nostra fede e dalla passione per questa bella e allo stesso tempo fugace e complessa realtà umano-cosmica, che appartiene ai miti, cioè a quanti sulla terra prendono poco posto.
E noi sappiamo che sulla terra, ci sono ancora tanti miti. Con essi condividiamo questa professione di fedeltà alla vita e a Chi, prima di noi, l’ha immaginata.

Mail di riferimento:

Giacomina Tagliaferri (Torino):giacominatagliaferri@alice.it

Stefani Baldini (Prato):leda.stefania@gmail.com

Fabrizia Giacobbe (Firenze):fabrizia.giacobbe@gmail.com

Anmtonella Olivero (Pistoia):antonella.olivero@mail.com

Antonietta Potente (Torino):antopot1@hotmail.com

Copyright © 2016, Valmaconsult

Unione Suore Domenicane San Tommaso D’Aquino

Testo nato dall’Assemblea Capitolare tenutasi a Mondovì – Luglio 2015

Pace a voi !!!

Pace, pace a voi che entrate in questo nostro spazio virtuale. Uno spazio attraverso il quale comunichiamo pensieri e parole, emozioni e piccole storie quotidiane. Nulla di davvero importante. Tutto molto banale, tutto estremamente semplice ma tutto allo stesso tempo vero, autentico … nostro.

Vi pensiamo qui con noi, magari seduti in cucina mentre sorseggiando un bicchiere del nostro vino, tra una parola e l’altra. condividiamo le ansie, le gioie e le speranze.  Questo spazio, perciò, è  un po’ come quello della nostra casa nella quale accogliamo gli amici e condividiamo un pasto.

Cerchiamo, quindi, di vivere nella nostra casa le atmosfere che hanno vissuto i primi cristiani nelle cui case  ci si riuniva per ascoltare la buona notizia del Vangelo e poi ricevere, dagli “anziani”, l’Eucaristia.  Che bello vivere la gioia dell’incontro con il Signore nelle tante piccole chiese domestiche. Oggi, però, il cristiano non vive più da clandestino e può ricevere il Signore Gesù  (nel pane e nel vino)  nella Chiesa mentre nelle case, chi lo desidera, potrà spezzare la Parola e vivere,con gli altri fratelli, la gioia del dialogo.

Franca e Vincenzo osb-can

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,1-12

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.

Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.

In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.

Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».

Parola del Signore

 

Vivere l’insperato

«Ama coloro che ti odiano, prega per coloro che ti fanno del male». Se vivessi nell’odio, che cosa potresti riflettere del Cristo? «Ama il prossimo tuo come te stesso» scriveva frere Roger di Taize in una sua lettera del 30 agosto 1974, come introduzione al Concilio dei giovani.

Queste parole scritte più di 40 anni fa sono straordinariamente attuali e ci offrono, per davvero, una grande opportunità per riflettere e cambiare la nostra vita.

Senza l’amore anche la fede perde di significato e la vita finisce nel vuoto. La stessa preghiera si fa afona e priva di senso. Solo l’amore, cercato, difeso e vissuto è capace davvero di colorare la vita facendone un capolavoro.

Questa è la vita che “impregnata”  dalla speranza ci mostra come “casa” dove il Cristo è accolto; questa è la vita che si esprime toccando le ferite del Cristo nelle piaghe dei poveri e dei malati.

Tutto il resto, proprio tutto, è solo vanità, orgoglio e male.

Franca e Vincenzo osb-cam

Francesco l’umile diacono che illumina

Senza dubbio si può dire che Tommaso da Celano è stato il primo biografo di Francesco  e oggi proponiamo una sua straordinaria descrizione del Santo:

«Quanto era bello, stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza di cuore, nell’amore di Dio, nella carità fraterna, nella prontezza dell’obbedienza, nella cortesia, nel suo aspetto angelico!
Di carattere mite, di indole calmo, affabile nel parlare, cauto nell’ammonire, fedelissimo nell’adempimento dei compiti affidatigli, accorto nel consigliare, efficace nell’operare, amabile in tutto.
Di mente serena, dolce di animo, di spirito sobrio, assorto nella contemplazione, costante nell’orazione e in tutto pieno di entusiasmo.
Tenace nei propositi, saldo nella virtù, perseverante nella grazia, sempre uguale a se stesso. Veloce nel perdonare, lento all’ira, fervido d’ingegno, di buona memoria, fine nelle discussioni, prudente nelle decisioni e di grande semplicità.
Severo con sé, indulgente con gli altri, discreto in tutto.
Era uomo fecondissimo, di aspetto gioviale, di sguardo buono, mai indolente e mai altezzoso.
Di statura piuttosto piccola, testa regolare e rotonda, volto un po’ ovale e proteso, fronte piana e piccola, occhi neri, di misura normale e tutto semplicità, capelli pure oscuri, sopracciglia diritte, naso giusto, sottile e diritto, orecchie dritte ma piccole, tempie piane, lingua mite, bruciante e penetrante, voce robusta, dolce, chiara e sonora, denti uniti, uguali e bianchi, labbra piccole e sottili, barba nera e rada, collo sottile, spalle dritte, braccia corte, mani scarne, dita lunghe, unghie sporgenti, gambe snelle, piedi piccoli, pelle delicata, magro, veste ruvida, sonno brevissimo, mano generosissima.
Nella sua incomparabile umiltà si mostrava buono e comprensivo con tutti. Adattandosi in modo opportuno e saggio ai costumi di ognuno. Veramente più santo tra i santi, e tra i peccatori come uno di loro. O Padre santissimo, pietoso e amante dei peccatori, vieni dunque loro in aiuto, e per i tuoi altissimi meriti degnati, te ne preghiamo, di sollevare coloro che vedi giacere miseramente nella colpa!» (I Cel., cap. XXIX, 83).

Auguri a tutti quanti portano il nome di Francesco.

Franca e Vincenzo osb-cam

 

 

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,25-30

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Parola del Signore

In cammino verso la nostra Gerusalemme

Ogni cammino ha una meta, ogni andare è il tentativo di raggiungere un luogo. Ogni uomo, infatti, cammina consapevole della direzione e sapendo perfettamente dove sta andando. L’uomo perciò cammina deciso verso il punto d’arrivo stabilito. Ed è quello che fa Gesù decidendo di andare a Gerusalemme dove sa bene che troverà la morte. Si arrabbia perfino con i suoi discepoli quando vorrebbero reagire a chi non lo accoglie lungo la via.

Imitare Gesù, quindi significa avere la consapevolezza e la determinazione di andare verso la nostra Gerusalemme. Andare sapendo che li troveremo la morte. Non è per niente facile fare questa scelta ma è l’unica possibilità che abbiamo per fare ciò che ha fatto il Signore.

Condividiamo con voi questa “gioia” e consapevoli del male che siamo chiamati ad accogliere abbiamo deciso di non fermare i nostri passi continuando a camminare verso la nostra Gerusalemme dove, di certo, troveremo la “morte” sperando, però, di ricevere la grazia di guadagnare la vita  eterna. Pronti a vivere il martirio  e i processi farsa; pronti ad accettare la  condanna con la pena  capitale, speriamo, però, quando tutto ciò che deve accadere accadrà, di essere in paradiso con Lui che conosce il cuore di ogni suo figlio.

Franca e Vincenzo osb-cam

 

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,51-56

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.
Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.

Parola del Signore

Aquila e Priscilla