San Benedetto esige una riparazione pubblica per quegli “sbagli commessi per negligenza”, ma non dice in che cosa essa consista; probabilmente in una prostrazione a terra. Ancor oggi nei monasteri si conserva l’uso di questo atto di umilta` per gli errori durante l’Ufficio: si porta la mano al petto o si genuflette al proprio posto… Sono, oltre che espressioni di umilta`, atti di riverenza verso la santita` di Dio. Chi non voleva sottoporsi a questa umiliazione e riparazione veniva punito piu` severamente, a giudizio dell’abate (forse con la soddisfazione degli scomunicati).
L’importanza di essere puntuali
Come e` proprio dell’uomo sbagliare, cosi` e` proprio del monaco riconoscere umilmente i suoi errori e le sue deficienze davanti a Dio e davanti ai fratelli. Percio` il significato della soddisfazione e` quello di riparare pubblicamente le colpe, gravi o leggere, commesse pubblicamente a detrimento della pace, della concordia, dell’ordine della comunita`; chiedere perdono a Dio delle irriverenze commesse contro di lui o contro le cose a lui consacrate. Il capitolo 43 parla della soddisfazione di chi arriva tardi alla preghiera comune o alla mensa.
La puntualita` costituisce un elemento fondamentale per l’ordine. Essa va usata soprattutto per la preghiera. Qualunque sia l’occupazione del monaco, al segnale dell’Ufficio divino, bisogna lasciarla subito perche` la dignita` della preghiera comune e` superiore a tutte le altre cose. Per inculcare la piu` scrupolosa puntualita`, San Benedetto dice di “correre con somma sollecitudine”, ma sempre con la gravita` caratteristica del monaco, ricordata molte volte nella Regola
Il silenzio
Il monaco è chiamato a tenere cura del silenzio in tutti i tempi, ma una posizione di privilegio va riservata al tempo della notte. Forse è l’ora nella quale sarà importante avviare un’opera di rieducazione al grande silenzio. Certo, San Benedetto vede quanto sia necessario il silenzio notturno per salvaguardare il riposo di dieci o venti monaci che dormivano nello stesso luogo. Ma e` anche certo che pensa alla “spiritualita`” – per cosi` dire – della notte.
La notte e`, infatti il tempo delle grandi rivelazioni di Dio nell’antica e nella nuova alleanza: nel silenzio della notte il Verbo incarnato e` apparso per la prima volta tra noi (cf. la liturgia del Natale); nel silenzio della notte il nostro Redentore e` risorto dal sepolcro; nel silenzio della notte, Cristo si intratteneva a colloquio col Padre. Il monaco dovrebbe, in questo grande silenzio, prolungare la sua preghiera personale che nasce dalla liturgia e delle liturgia e` luce e alimento (cf. di nuovo quanto detto sulla notte e la veglia in vista della preghiera, nell’Excursus sulla preghiera).
- I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto durante la notte.
- Perciò in ogni periodo dell’anno, sia di digiuno oppure no, si procederà nel modo seguente:
- se non si digiuna, appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra opera di edificazione,
- ma non i primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché ai temperamenti impressionabili non fa bene ascoltare a quell’ora i suddetti testi scritturistici, che però si dovranno leggere in altri momenti;
- se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato
- e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a disposizione,
- perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche incombenza.
- Quando saranno tutti riuniti, dicano insieme Compieta, all’uscita dalla quale non sia più permesso ad alcuno di pronunciare una parola.
- Chiunque sia colto a trasgredire questa regola del silenzio venga severamente punito,
- eccetto il caso in cui sopraggiungano degli ospiti o l’abate abbia dato un ordine a un monaco;
- ma anche in questa eventualità bisogna procedere con la massima gravità e il debito riserbo.
Il cibo e il vino nel monastero
Ciò che emerge per cibo e vino in monastero è la sobrietà, la moderazione, l’uso dei beni senza eccessi … Sono principi cardine della vita cristiana, vie che aiutano a camminare verso la santità… E così, nel particolare vediamo che San Benedetto vuole due pietanze cotte, per assicurare il necessario ai fratelli malati (v.2), ma chi aveva stomaco forte poteva senza dubbio fare onore ad ambedue. L’eventuale terzo piatto era di legumi teneri che in Italia del Sud il popolo soleva mangiare anche crudi: fave, ceci, lupini, ed anche carote, cipolle, ravanelli, ecc. Per il pane si parla di una “libbra”, peso tradizionale presso tutti i monaci. … Sull’uso del vino nella tradizione monastica, si va dalla totale proibizione (Vita di Antonio, Pacomio, Basilio – solo per i malati -, Giovanni Crisostomo…), alla progressiva (Agostino, Ilario di Arles…) e pacifica ammissione (Cesario, Aurichiano, Isidoro, Fruttuoso…). San Benedetto accetta le cose come sono e vi si adatta, pur ricordando e lodando l’austerita` antica. E aggiunge la norma di Basilio di non bere almeno fino alla sazieta`, citando la frase del Siracide 19,2 che, presa integralmente, suona cosi`: “vino e donne fanno traviare anche i saggi”. A San Benedetto in questo punto, il secondo termine (le donne) non e` pertinente!
Mangiare in silenzio per cibare corpo e anima
Non sappiamo se vi sia mai capitato di stare a tavola in qualcuno di quei monasteri nei quali vige ancora la regola del silenzio. A noi è capitato e possiamo assicurarvi che è un’esperienza davvero suggestiva. Se non l’avete mai fatta ve la consigliamo.
Comunque un altro ufficio connesso con la refezione dei fratelli e` quello del lettore di mensa. Anche questo ufficio e` settimanale, come quello dei servitori. La lettura a tavola era sconosciuta in Egitto (Pacomio). Secondo Cassiano, l’uso di leggere a tavola lo avrebbero introdotto i monaci di Cappadocia per evitare le discussioni frivole e le dispute. S.Basilio si appella al motivo spirituale, seguito poi da tutta la tradizione monastica: cioe` di rifocillare anche lo spirito insieme al corpo (vedi la scritta nel nostro refettorio del monastero di S.Silvestro: “Dum corpus reficitur, mens ieiuna non maneat” <mentre si rifocilla il corpo, lo spirito non rimanga digiuno>; cosi` S.Agostino, S.Cesario, ecc.
Continua la lettura di Mangiare in silenzio per cibare corpo e anima
I vecchi e i ragazzi
San Benedetto ricorda la naturale tendenza dell’uomo a compatire i vecchi e i fanciulli. Pero` vuole che intervenga anche l’autorita` della Regola perche` – l’esperienza glielo avra` insegnato – in una comunita` monastica ci puo` essere sempre chi vede di malanimo le eccezioni e certi temperamenti rigidi vogliono che la Regola si applichi fedelmente e scrupolosamente in tutto e a tutti. San Benedrtto con la sua grande discrezione e la considerazione della soggettivita`, vuole che si tenga conto sempre dei piu` deboli e si usi un’affettuosa condiscendenza.
La cura degli ammalati in monastero
Il capitolo si apre con due solenni principi fondati su due frasi del Signore: bisogna aver cura dei malati prima di tutto e soprattutto – espressione assoluta ed energica – e servire a loro come a Cristo in persona; seguono le due citazioni di Mt.25,36 e 40. I monaci opereranno di conseguenza, ma San Benedetto aggiunge una frase, grave, ma pacata, anche per gli infermi a non essere petulanti e troppo pretenziosi o addirittura capricciosi. Comunque, anche ammesso che i fratelli malati diventino cosi` strani – come puo` succedere a causa del male – gli altri devono sopportarli in ogni caso. La prima parte del capitolo si chiude con una ammonizione categorica all’abate affinche` si prenda “somma cura” degli infermi.
Monaci, cucina e alimentazione
I padri del monachesimo antico danno all’alimentazione grande importanza: sia nel senso che tale necessita` corporale serviva loro come palestra per esercitarsi nella mortificazione e nella penitenza; sia nel senso che compresero il ruolo che una giusta alimentazione ha per le attivita` spirituali del monaco. Cassiano, con la sua esperienza dei diversi ambienti monastici, riassume nelle sue Institutiones alcune norme; in un capitolo pone espressamente la questione: come debba essere il pasto del monaco. E risponde che si deve scegliere una alimentazione: a) che mortifichi gli ardori della concupiscenza; b) che possa prepararsi facilmente; c) che sia la piu` economica… (Inst.5,23).Riassumendo il suo insegnamento, possiamo dire che il regime alimentare dei monaci deve avere tre obiettivi: a) dominare direttamente la passione della gola e, indirettamente, quella della lussuria, cosi` collegata con la gola; 2) essere in coerenza con la poverta` che si e` professata; 3) favorire l’orazione e in generale tutta l’attivita` spirituale del monaco.
La distribuzione del necessario
L’abate, che deve dare ai monaci il necessario, deve considerare le varie personalita`; non che deve fare preferenze (v.2), ma tener conto delle debolezze (v.3). Ancora una volta San Benedetto e` dalla parte dei piu` deboli: piu` che esigere molto o il massimo da tutta la comunita`, nella legislazione si parte dalla necessita` dei meno dotati. …
Nonostante le cosi` nobili e ragionevoli osservazioni, San Benedetto sa che i monaci rimangono uomini e, come tali, sono portati ad essere invidiosi. Per questo, a proposito della disuguale – pero` giusta! – distribuzione del necessario, cioe` delle cose in dotazione al singolo monaco, – cose quindi diverse e in misura diversa -, introduce una severa condanna del vizio della mormorazione. San Benedetto insistera` altrove contro la mormorazione, “cancro delle comunita`”. Si notino le forti espressioni con l’accumulo di termini: “ante omnia” <soprattutto>; “pro qualiscumque causa” <per qualsiasi ragione>; “in aliquo qualicumque verbo vel significatione” <in qualsiasi parola o altro gesto>. Le rivendicazioni, il malcontento, l’acidita` nel monastero sono veramente l’antitesi della PAX che invece deve regnare. La carita` insomma, e solo la carita`, rende possibile “l’utopia” di avere tutto in comune, secondo il meraviglioso – e purtroppo di breve durata – esempio della prima Chiesa di Gerusalemme.
La proprieta’, nel monastero e’ un vizio
Uno dei capitoli piu` duri della Regola, una pagina energica, radicale, in cui San Benedetto porta a conseguenze estreme l’insegnamento di Cassiano: il monaco non deve possedere nulla di proprio, ed e` in totale dipendenza dalla volonta` dell’abate. … Gia` la tradizione monastica anteriore riconosceva concordemente la poverta` come elemento essenziale dello stato monastico; e la condanna della proprieta` privata e` uno dei temi piu` comuni nelle Regole monastiche e nei trattati di spiritualita`: cosi` Pcomio, Basilio, Agostino, Cassiano. Pero` le espressioni cosi` forti di San Benedetto hanno un parallelo solo in alcune frasi virulente di S.Girolamo. Commentando questo capitolo della Regola, non e` male interrogarci, noi monaci del XX secolo, sullo spirito di distacco e di poverta`. Ricordiamoci che la vocazione di Antonio il Grande comincio` con la pratica letterale delle parole di Gesu`: “Va, vendi quello che hai…” (Mt.19m21); ricordiamoci che una delle note qualificanti del monachesimo era lo spogliamento totale, per vivere nella semplicita` e nel distacco piu` assoluto; pensiamo che ancora oggi per il monachesimo hindu e buddhista farsi monaci significa spogliarsi veramente di tutto, non avere assolutamente nulla.
Continua la lettura di La proprieta’, nel monastero e’ un vizio