Il cellario sia un Padre

Il cellerario deve essere come un padre per tutta la comunita`, quindi deve preoccuparsi di tutto e di tutti, sopratutto avere una cura speciale per i piu` deboli: malati, fanciulli, ospiti, poveri. Una virtu` che gli viene molto raccomandata e` l’umilta`, che dimostrera` nel non contristare i fratelli: la sentenza e` l’eco di una massima degli antichi Padri: “non contristare il tuo fratello, giacche` sei monaco” (Vitae Patrum, 3,170); nel non disprezzarli nel caso che debba negare loro qualcosa: l’espressione e` presa da S.Agostino: “A chi non puoi dare cio` che ti chiede, non mostrare disprezzo; se puoi dare, da`; se non puoi, dimostrati affabile (Esposizione sul salmo 103,1.19); non potendo concedere la cosa richiesta, risponda con una buona parola, secondo il libro del Siracide 18,17 ;la razione di cibo che deve dare, la dia senza arroganza ne` indugio, cioe` senza farla piovere dall’alto, dandosi l’aria di padrone che, bonta` sua, “si degna” di dare agli altri.

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Tentativi di recupero dei monaci ribelli

Leggendo il capitolo 28 c’è il forte rischio di concentrare l’attenzione solo sull’aspetto delle pene corporali ma se guardiamo con maggiore attenzione possiamo notare che la ragione vera è il recupero del monaco, la sua salvezza e, anche, la salvezza degli altri che vivono nel monastero.

C’è poi il capitolo 29 nel quale la logica è sempre la stessa, il recupero del monaco che ha la possibilità per ben tre volte di essere riammesso. Solo dopo quest’ultima riammissione se fallita quel monaco non potrà più rientrare. San Basilio proibiva anche la riammissione solo di passaggio.

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La misericordia dell’abate verso gli scomunicati

Quanto sia dovuto pesare a San Benedetto sentirsi obbligato a elaborare un codice penale cosi` severo, appare chiaramente da questo capitolo 27, uno dei piu` belli della Regola. Il testo, quasi senza parallelo nella Regola Monastica, tutto pervaso di pieta` e misericordia, tratta degli scomunicati, ma e` interamente dedicato all’abate. Si nota la preoccupazione e  l’enorme interesse per la salvezza delle anime e la ricerca di tutti i rimedi possibili. All’inizio l’abate e` visto come un medico (la metafora risale a Origene, Ambrogio, Cassiano) che si occupa dei malati, secondo la frase di Gesu` in Mt.9,12. Ora, questo medico saggio, esperto, usera` ogni industria perche` la “medicina” della scomunica abbia il migliore effetto. E San Benedetto ne indica una che, mentre salva l’autorita` dell’abate, esercita anche lo spirito di carita` fraterna: mandera` dei monaci anziani ed assennati i quali “quasi di nascosto” (dagli altri confratelli) lo consolino nell’afflizione e lo spingano a riconciliarsi umilmente dando la dovuta soddisfazione.

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Colpe gravi tra scomuniche e pene corporali

Le pene corporali non erano novita` propria di San Benddetto: basta confrontare le Regole di Pacomio, Macario, le Vitae Patrum, Cassiano e in occidente la Regola di Cesario e la Regola Monastica In questo, come detto sopra, San Benedetto e` molto severo; ma non pare giustificata l’immagine trasmessa da qualche pittore di un San Benedetto con un fascio di verghe in mano, quasi stesse sempre a frustare. Potrebbe interpretarsi di un santo che mortifica se stesso con la “disciplina”: concezione facile specialmente dopo S.Pier Damiano; oppure il fascetto di verghe potrebbe rappresentare uno strumento per la sveglia, un qualcosa di simile alla nostra “traccola” (cf. quanto detto alla fine del c.47). Del resto, la discrezione di San Benedetto anche in questo appare manifesta, se si pensa alle terribili disposizioni penitenziari di San Colombano.

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Monaci tra cella e dormitorio

La sostituzione della cella a favore del dormitorio comune avviene alla fine del secolo V in Gallia (per evitare i vizi della proprieta` privata, della gola, dell’incontinenza), e la cosa si nota anche a Costantinopoli. I motivi iniziali dell’abbandono della cella sono il lavoro manuale e l’Ufficio divino in comune. In questo cambiamento dalla cella al dormitorio si deve vedere il fatto piu` importante della storia del monachesimo antico. La cella dava al monaco un carattere solitario e contemplativo; il suo abbandono significa che si lascia questo alto ideale per assicurare la pratica di certe virtu` elementari; salvare la poverta` e i buoni costumi sembra piu` urgente che l’orazione incessante.

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San Benedetto si ispira ai diaconi per i suoi decani

Questa indicazione di San Benedetto che vuole organizzare i monaci a gruppi di dieci sotto la sorveglianza di un decano trova origine tra i monaci egiziani ma forse più ancora in Atti 6, 1-3 considerato l’atto di nascita dei diaconi. Non si tratta di certo di una “elezione” come pensiamo noi oggi, ma di una scelta diretta dell’ Abate che individuava persone timorate di Dio che lo aiutassero a governare.

Si esige anzitutto che siano “stimati”, letteralmente “di buona riputazione”, espressione tratta da Atti 6,3 a proposito dei diaconi; inoltre che siano di “santa vita monastica”. Piu` sotto, al v.4, abbiamo una coppia di qualita` richieste per chi deve essere ordinato abate; <santita` di vita e dottrina spirituale>. Il significato e` evidente: che l’abate “possa condividere con loro tutti i pesi suoi” (v,3), (l’espressione richiama Esodo 18,22), compresa la responsabilita` spirituale: insegnare le vie di Dio ai fratelli loro affidati.

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Umilta’ e purezza del cuore

Per San Benedetto la preghiera deve essere riverente, umile, piena di abbandono, breve e pura (cioe` intensa, senza distrazioni) e deve sgorgare da un cuore puro (cioe` sincero, senza macchia di peccato) e contrito. Tutto cio` San Benedetto lo ha espresso con quattro coppie di vocaboli: 1) con umiltà e rispetto 2) con tutta umiltà e purezza di devozione 3) nella purezza del cuore e la convinzione delle lacrime 4) breve e pura.

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Pregare con partecipazione interiore

La giusta partecipazione interiore è fondamentale perché la nostra preghiera sia vera e, diciamo, efficace. Esteriormente la forma della preghiera può essere la stessa ma la partecipazione interiore è ciò che fa la differenza; è ciò che la rende efficace; è ciò che da alla preghiera la possibilità reale di essere tale. Ne troviamo una esplicazione in Giobbe: ”Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5).

Si tratta di scoprire in se stessi un “cuore nuovo” … Quel cuore che vede l’oltre, che  sa  cogliere la presenza del divino e riesce ad ascoltare la voce di Dio e a “toccare” la sua presenza nello Spirito.

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L’ufficio notturno in estate e di domenica

La preghiera con la liturgia delle ore caratterizza in maniera significativa la vita dei monaci … San Benedetto, come stiamo cercando di capire, la regolamenta nei dettagli e lo fa offrendo una serie di indicazioni molto precise. Di qui nasce uno stile che aiuta l’unità e costruisce ponti di fraternità oltre ogni limite e distinzione di sesso, di lingua, di razza, ecc. Ed è  cosi che ognuno può pregare lodi, ore medie, vespri e compieta nella propria lingua, nella propria terra, con il proprio ruolo,  sapendo che tutti stanno recitando le stesse preghiere allo stesso modo. Questo crea unità. Bello!

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I salmi dell’ufficio notturno

La preghiera notturna dei monaci si svolgeva nel rispetto di regole precise che San Benedetto ha indicato. Questo non solo perché tutti i monasteri vivessero uno stesso stile di preghiera ma anche perché la liturgia fosse ordinata e pulita, semplice ma anche piena di un sentire comune che trovasse espressione anche nella condivisione di una modalità espressiva unitaria.

Un bel proposito il cui rispetto sarebbe bello anche in questo nostro tempo nel quale sempre più  spesso spuntano “solisti” che vivono nuove modalità stilistiche che creano tanti piccoli cerchi chiusi in se stessi.

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Aquila e Priscilla