Preghiera del cuore

LA PREGHIERA DEL CUORE

(Questa è  la preghiera che si pratica all’eremo)

– cos’è e come si prega
Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore o peccatrice

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Nella storia del cristianesimo si constata che, in numerose tradizioni, esisteva un insegnamento sull’importanza del corpo e delle posizioni corporee per la vita spirituale. Grandi santi ne hanno parlato, come Domenico,Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola… Inoltre, fin dal IV secolo, incontriamo consigli a questo proposito nei monaci d’Egitto. Più tardi, gli ortodossi hanno proposto un insegnamento sull’attenzione al ritmo del cuore e sulla respirazione. Se ne è parlato soprattutto a proposito della «preghiera del cuore» (o la «preghiera di Gesù», che si rivolge a lui).

Questa tradizione tiene conto del ritmo del cuore, della respirazione, di una presenza a se stessi per essere più disponibili a Dio. È una tradizione molto antica che attinge dagli insegnamenti dei Padri del deserto egiziano, monaci che si sono dati totalmente a Dio in una vita eremitica o comunitaria con un’attenzione particolare alla preghiera, all’ascesi e al dominio sulle passioni. Essi possono essere considerati i successori dei martiri, grandi testimoni della fede all’epoca delle persecuzioni religiose, che cessarono quando il cristianesimo divenne religione di Stato nell’impero romano. A partire dalla loro esperienza, si sono impegnati in un lavoro di accompagnamento spirituale ponendo l’accento sul discernimento di ciò che si viveva nella preghiera. In seguito, la tradizione ortodossa ha valorizzato una preghiera in cui alcune parole tratte dai Vangeli sono accostate al respiro e ai battiti del cuore. Queste parole sono state pronunziate dal cieco Bartimeo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Mc 10,47) e dal pubblicano che prega così: «Signore, abbi pietà di me, peccatore» (Lc 18,13).

Questa tradizione è stata riscoperta di recente dalle Chiese d’Occidente, benché risalga a un’epoca anteriore allo scisma tra i cristiani d’Occidente e d’Oriente. E’ dunque un patrimonio comune da esplorare e da gustare, che ci interessa in quanto mostra come possiamo associare il corpo, il cuore e la mente su un cammino spirituale cristiano. Ci possono essere convergenze con alcuni insegnamenti provenienti da tradizioni dell’Estremo Oriente.

La ricerca del Pellegrino russo

I Racconti di un pellegrino russo ci permettono di accostarci alla preghiera del cuore. Attraverso quest’opera l’Occidente ha riscoperto l’esicasmo. In Russia esisteva un’antica tradizione secondo la quale certe persone, attirate da un cammino spirituale esigente, partivano a piedi attraverso la campagna, come mendicanti, ed erano accolte nei monasteri, Come pellegrini, andavano di monastero in monastero, alla ricerca di risposte alle loro domande spirituali. Questa specie di ritiro peregrinante, nel quale avevano un ruolo importante l’ascesi e le privazioni, poteva durare diversi anni.

Il Pellegrino russo è un uomo vissuto nel XIX secolo. I suoi racconti furono pubblicati verso il 1870. L’autore non è chiaramente identificato. Era un uomo che aveva un problema di salute: un braccio atrofizzato, ed era assillato dal desiderio d’incontrare Dio. Andava da un santuario all’altro. Un giorno, egli ascolta in una chiesa alcune parole tratte dalle lettere di san Paolo. Inizia allora un pellegrinaggio di cui ha scritto il racconto. Ecco come egli si presenta:

“Per grazia di Dio sono cristiano, per le mie azioni un grande peccatore, per condizione un pellegrino senza dimora e del genere più umile, che vaga da un luogo all’altro. Tutti i miei averi consistono in una bisaccia di pan secco sulle spalle, e la Sacra Bibbia sotto la camicia. Nient’altro. Durante la ventiquattresima settimana dopo il giorno della Trinità entrai in chiesa durante la liturgia per pregare un pò; stavano leggendo la pericope della lettera ai Tessalonicesi di san Paolo, in cui si dice: «Pregate incessantemente» (1Ts 5,17). Questa massima mi si fissò particolarmente nella mente, e incominciai dunque a riflettere: come si può pregare incessantemente, quando per ogni uomo è inevitabile e necessario impegnarsi anche in altre faccende per procurarsi il sostentamento? Mi rivolsi alla Bibbia e vi lessi con i miei occhi quello che avevo udito, e cioè che bisogna pregare «incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito» (Ef 6,18), pregare «alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese» (1Tm 2,8). Pensavo e pensavo, ma non sapevo che cosa decidere. «Che fare?», riflettevo. «Dove trovare qualcuno che possa spiegarmelo? Andrò per le chiese dove parlano celebri predicatori, forse sentirò qualcosa di convincente». E andai. Udii molte prediche eccellenti sulla preghiera. Ma erano tutti insegnamenti sulla preghiera in genere: che cos’è la preghiera, com’è necessario pregare, quali sono i suoi frutti; ma nessuno diceva come progredire nella preghiera. Ci fu sì una predica sulla preghiera nello spirito e sulla preghiera continua; ma non vi si indicava come arrivarci (pp. 25-26).

Il Pellegrino è dunque molto deluso, perché ha sentito quest’appello a una preghiera continua, ha ascoltato le prediche, ma non ha ricevuto risposta. Dobbiamo riconoscere che questo è un problema ancora attuale nelle nostre chiese. Sentiamo dire che bisogna pregare, siamo invitati a imparare a pregare, ma, in conclusione, la gente pensa che non ci siano luoghi dove ci si possa fare iniziare alla preghiera, particolarmente a pregare incessantemente e tenendo conto del proprio corpo. Allora, il Pellegrino comincia a fare il giro delle chiese e dei monasteri. E arriva da uno starec – un monaco accompagnatore spirituale – che lo riceve con bontà, lo invita a casa sua e gli propone un libro dei Padri che gli permetterà di capire chiaramente che cos’è la preghiera e di impararla con l’aiuto di Dio: la Filocalia, che significa in greco l’amore della bellezza. Gli spiega quella che si chiama la preghiera di Gesù.

Ecco quel che gli dice lo starec: La preghiera interiore e perpetua di Gesù consiste nell’invocare incessantemente, senza interruzione, il nome divino di Gesù Cristo con le labbra, la mente e il cuore, immaginando la sua presenza costante e chiedendo il suo perdono, in ogni occupazione, in ogni luogo. in ogni tempo, persino nel sonno. Essa si esprime con queste parole: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!». Chi si abitua a questa invocazione ne riceve grande consolazione, e sente l’esigenza di recitare sempre questa preghiera, tanto che non può più farne a meno, ed essa stessa fluisce spontaneamente in lui. Adesso hai capito che cosa sia la preghiera continua?

E il Pellegrino esclama colmo di gioia: «Per amor di Dio, insegnatemi come arrivarci!».

Lo Starec prosegue:
«Impareremo la preghiera leggendo questo libro, che si intitola Filocalia». Questo libro raccoglie testi tradizionali della spiritualità ortodossa.

Lo starec sceglie un brano di san Simeone il Nuovo Teologo:
Siedi in silenzio e appartato; china il capo, chiudi gli occhi; respira più lentamente, guarda con l’immaginazione dentro il cuore, porta la mente, cioè il pensiero, dalla testa al cuore. Mentre respiri, di’: «Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore», sottovoce con le labbra, oppure solo con la mente. Cerca di scacciare i pensieri, sii tranquillo e paziente, e ripeti spesso questo esercizio.

Dopo avere incontrato questo monaco, il Pellegrino russo legge altri autori e continua ad andare di monastero in monastero, da un luogo di preghiera a un altro, facendo ogni specie di incontri lungo il cammino e approfondendo quel suo desiderio di pregare incessantemente. Egli conta il numero di volte che pronunzia l’invocazione. Fra gli ortodossi la corona del rosario è costituita di nodi (cinquanta o cento nodi). È l’equivalente del rosario, ma qui non vi sono il Padre nostro e l’Ave Maria rappresentati da grani grossi e piccoli, più o meno distanziati. I nodi sono invece della stessa dimensione e disposti uno dopo l’altro, con l’unico intento della ripetizione del nome del Signore, pratica che si acquisisce progressivamente.

Ecco come il nostro Pellegrino russo ha scoperto la preghiera continua, a partire da una ripetizione molto semplice, tenendo conto del ritmo della respirazione e del cuore, cercando di uscire dalla mente, per entrare nel cuore profondo, quietare il proprio essere interiore e rimanere così in preghiera permanente.

Questa storia del Pellegrino contiene tre insegnamenti che alimentano la nostra ricerca.

Il primo pone l’accento sulla ripetizione. Non abbiamo bisogno di andare a cercare dei mantrafra gli indù, noi ne abbiamo nella tradizione cristiana con la ripetizione del nome di Gesù. In numerose tradizioni religiose, la ripetizione di un nome o di una parola in rapporto con il divino o il sacro è il luogo di concentrazione e di acquietamento per la persona e di relazione con l’invisibile. Allo stesso modo, gli ebrei ripetono più volte al giorno lo Shemà (la proclamazione di fede che comincia con «Ascolta, o Israele…», Dt, 6,4). La ripetizione è stata ripresa dal rosario cristiano (che proviene da san Domenico, nel XII secolo). Questa idea di ripetizione è dunque classica anche nelle tradizioni cristiane.

Il secondo insegnamento verte sulla presenza al corpo, che si riallaccia ad altre tradizioni cristiane. Nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyola, che è stato all’origine della spiritualità dei gesuiti, segnala l’interesse di pregare al ritmo del cuore o della respirazione, dunque l’importanza di un’attenzione al corpo (cfr. Esercizi spirituali, 258-260). In questa maniera di pregare, si prendono le distanze riguardo a una riflessione intellettuale, a un approccio mentale, per entrare in un ritmo più affettivo, perché la ripetizione non è solamente esteriore, vocale.

Il terzo insegnamento si riferisce all’energia che si sprigiona nella preghiera. Questo concetto di energia – che si incontra spesso attualmente – è molte volte ambiguo, polisemico (vale a dire che ha significati differenti). Trattandosi della tradizione nella quale si inscrive il Pellegrino russo, si parla di un’energia spirituale la quale si trova nel nome stesso di Dio che viene pronunziato. Questa energia non rientra nella categoria dell’energia vibratoria, come nella pronuncia della sacra sillaba OM, che è materiale. Sappiamo che il primo mantra, il mantra originario per l’induismo è la sillaba mistica OM. È la sillaba iniziale, che viene dalle profondità dell’uomo, nella forza dell’espirazione. Nel nostro caso, si tratta di energie increate, l’energia divina stessa, che viene nella persona e la pervade quando essa pronunzia il nome di Dio. L’insegnamento della Filocalia permette dunque di ricollegarsi all’esperienza della ripetizione, del respiro e del corpo, dell’energia, ma assunta in una tradizione cristiana in cui non si tratta di un’energia cosmica, ma spirituale.

Ritorniamo alla trasmissione della tradizione della preghiera del cuore, dell’invocazione incessante del nome di Gesù, che si localizza nelle profondità del cuore. Essa risale alte tradizioni dei Padri greci del Medioevo bizantino: Gregorio Palamàs, Simeone il Nuovo Teologo, Massimo il Confessore, Diadoco di Fotice; e ai Padri del deserto dei primi secoli: Macario ed Evagrio. Alcuni la riallacciano persino agli apostoli… (nella Filocalia). Questa preghiera si è sviluppata soprattutto nei monasteri del Sinai, al confine dell’Egitto, a partire dal VI secolo, poi sul monte Athos nel XIV secolo. Lì vivono ancora centinaia di monaci completamente isolati dal mondo, sempre immersi in questa preghiera del cuore. In alcuni monasteri si continua a mormorarla, come un ronzio di alveare, in altri la si dice interiormente, in silenzio. La preghiera del cuore fu introdotta in Russia verso la metà del XIV secolo. Il grande mistico san Sergio di Radonez, il fondatore del monachesimo russo, la conosceva. Altri monaci in seguito l’hanno fatta conoscere nel XVIII secolo, poi essa si è diffusa progressivamente al di fuori dei monasteri, grazie alla pubblicazione della Filocalia, nel 1782. Infine, la diffusione dei Racconti del Pellegrino russo a partire dalla fine del XIX secolo l’ha resa popolare.

La preghiera del cuore ci permetterà di progredire nella misura in cui possiamo appropriarci l’esperienza che abbiamo cominciato, in una prospettiva sempre più cristiana. In quello che abbiamo finora imparato, abbiamo insistito soprattutto sull’aspetto affettivo e corporeo della preghiera e della ripetizione; adesso, facciamo ancora un altro passo. Questo modo di riappropriarsi un tale procedimento non implica un giudizio o una disistima delle altre tradizioni religiose (come il tantrismo, lo yoga…). Abbiamo qui l’occasione di collocarci nel cuore della tradizione cristiana, a proposito di un aspetto che si è tentato di ignorare nel secolo scorso nelle Chiese d’occidente. Gli ortodossi sono rimasti più vicini a questa pratica, mentre la tradizione cattolica occidentale recente si è evoluta piuttosto verso un approccio razionale e istituzionale del cristianesimo. Gli ortodossi sono rimasti più vicini all’estetica, a ciò che si prova, alla bellezza e alla dimensione spirituale, nel senso dell’attenzione all’opera dello Spirito Santo nell’umanità e nel mondo. Abbiamo visto che la parola esicasmo significa quiete, ma essa rimanda anche alla solitudine, al raccoglimento.

La potenza del Nome
Perché nella mistica ortodossa si dice che la preghiera del cuore è al centro dell’ortodossia? Tra l’altro, perché l’invocazione incessante del nome di Gesù si collega alla tradizione ebraica, per la quale il nome di Dio è sacro, poiché c’è una forza, una potenza particolare in questo nome. Secondo questa tradizione è proibito pronunziare il nome di Jhwh. Quando gli ebrei parlano del Nome, dicono: il Nome o il tetragramma, le quattro lettere. Essi non lo pronunziavano mai, salvo una volta l’anno, al tempo in cui il tempio di Gerusalemme esisteva ancora. Soltanto il sommo sacerdote aveva il diritto di pronunziare il nome di Jhwh, nel santo dei santi. Ogni volta che nella Bibbia si parla del Nome, si parla di Dio. Nel nome stesso, c’è una presenza straordinaria di Dio.

Si ritrova l’importanza del nome negli Atti degli Apostoli, il primo libro della tradizione cristiana dopo i Vangeli: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo» (At 2,21). Il nome è la persona, il nome di Gesù salva, guarisce, scaccia gli spiriti impuri, purifica il cuore. Ecco che cosa dice a questo proposito un sacerdote ortodosso: «Portate costantemente nel cuore il dolcissimo nome di Gesù; il cuore è infiammato dal richiamo incessante di questo nome diletto, di un ineffabile amore per lui».

Questa preghiera si fonda sull’esortazione a pregare sempre e che abbiamo ricordato a proposito del Pellegrino russo. Tutte le sue parole provengono dal Nuovo Testamento. È il grido del peccatore che chiede aiuto al Signore, in greco: «Kyrie, eleison». Questa formula è utilizzata anche nella liturgia cattolica. E ancora oggi viene recitata decine di volte negli uffizi ortodossi greci. La ripetizione del «Kyrie, eleison» è dunque importante nella liturgia orientale.

Per addentrarci nella preghiera del cuore, non siamo obbligati a recitare tutta la formula: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me (peccatore)»; possiamo scegliere un’altra parola che ci commuove. Bisogna tuttavia comprendere l’importanza della presenza del nome di Gesù, quando vogliamo penetrare a fondo il significato di questa invocazione. Nella tradizione cristiana, il nome di Gesù (che in ebraico si dice Jehoshua) significa: «Dio salva». È un modo di rendere presente il Cristo nella nostra vita. Ritorneremo a parlarne. Per il momento, è possibile che un’altra espressione ci si addica meglio. L’importante è prendere l’abitudine di ripetere regolarmente questa espressione, come un segno di tenerezza che si esprime a qualcuno. Quando siamo avviati su un cammino spirituale e accettiamo che sia un cammino di relazione con Dio, scopriamo dei nomi particolari che rivolgiamo a Dio, nomi che amiamo in modo particolare. Sono talvolta nomi affettuosi, pieni di tenerezza, che possono essere detti secondo la relazione che si ha con lui. Per alcuni, sarà Signore, Padre; per altri, sarà Papà, oppure Diletto… Una sola parola può bastare in questa preghiera; la cosa principale è non cambiare troppo spesso, ripeterla regolarmente, e che sia per chi la pronuncia una parola che lo radica nel suo cuore e nel cuore di Dio.

Alcuni di noi possono essere riluttanti di fronte alle parole «pietà» e «peccatore». La parola pietà disturba perché ha preso spesso una connotazione doloristica o umiliante. Ma se la consideriamo nel suo primo significato di misericordia e di compassione, la preghiera può anche voler dire: «Signore, guardami con tenerezza». La parola peccatore evoca il riconoscimento delle nostre povertà. Non vi è in ciò nessun senso di colpa incentrato su una lista di peccati. Il peccato è piuttosto uno stato in cui percepiamo fino a che punto facciamo fatica ad amare e a lasciarci amare come vorremmo. Peccare significa «fallire il bersaglio»… Chi non riconosce di fallire il bersaglio più spesso di quanto vorrebbe? Rivolgendoci a Gesù, gli chiediamo di avere compassione delle difficoltà che abbiamo a vivere al livello del cuore profondo, nell’amore. È una richiesta di aiuto per liberare la sorgente interiore.

In che modo si fa questa respirazione del Nome, del nome di Gesù? Come racconta il Pellegrino russo, si ripete l’invocazione un certo numero di volte utilizzando il rosario a nodi. Il fatto di recitarla cinquanta o cento volte sul rosario permette di sapere a che punto si è, ma non è questa certamente la cosa più importante. Quando lo starec ha indicato al Pellegrino russo come doveva procedere, gli ha detto: «Tu cominci dapprima con mille volte e poi duemila volte…». Con il rosario, ogni volta che si dice il nome di Gesù, si fa scorrere un nodo. Questa ripetizione fatta sui nodi permette di fissare il pensiero, ricorda quello che si sta facendo e aiuta così a rimanere consapevoli del procedimento di preghiera.

Respirare lo Spirito Santo
Accanto al rosario, il lavoro della respirazione ci dà il segno migliore di riferimento. Si ripetono queste parole al ritmo dell’inspirazione, poi dell’espirazione in modo da farle penetrare progressivamente nel nostro cuore, come vedremo negli esercizi pratici. In questo caso, i nodi non sono necessari. In ogni modo, anche in questo, non cerchiamo di fare prodezze. Appena ci inoltriamo su un cammino di preghiera con l’obiettivo di ottenere risultati visibili, seguiamo lo spirito del mondo e ci allontaniamo dalla vita spirituale. Nelle tradizioni spirituali più profonde, siano esse giudaiche, induiste, buddhiste o cristiane, esiste una libertà in quanto ai risultati, perché il frutto è già nel cammino. Abbiamo dovuto farne già l’esperienza. Oseremmo forse affermare: «Sono arrivato»? Tuttavia, senza dubbio, raccogliamo già buoni frutti. Lo scopo è di arrivare a una libertà interiore sempre più grande, a una comunione sempre più profonda con Dio. Ciò viene dato impercettibilmente, progressivamente. Il solo fatto di essere in cammino, di essere attenti a quel che viviamo, è già il segno di una continua presenza al presente, nella libertà interiore. Il resto, non abbiamo bisogno di ricercarlo: è dato in sovrappiù.

Gli antichi monaci dicono: soprattutto non bisogna esagerare, non cercare di ripetere il Nome fino a inebetirsi completamente; lo scopo non è quello di andare in trance. Esistono altre tradizioni religiose che propongono metodi per arrivarci, accompagnando il ritmo delle parole con un’accelerazione della respirazione. Ci si può aiutare battendo sui tamburi, o con movimenti rotatori del tronco come in certe confraternite sufi. Si provoca così una iperventilazione, dunque un’iperossigenazione del cervello che determina una modificazione dello stato di coscienza. La persona che partecipa a queste trances è come trascinata dagli effetti dell’accelerazione della sua respirazione. Il fatto di essere in molti a dondolarsi insieme accelera il processo. Nella tradizione cristiana, quel che viene ricercato è la pace interiore, senza nessuna manifestazione particolare. Le Chiese sono sempre state prudenti a proposito delle esperienze mistiche. Normalmente, nel caso dell’estasi, la persona quasi non si muove, ma ci possono essere leggeri movimenti esterni. Non si ricerca nessuna agitazione né eccitazione, la respirazione serve unicamente da supporto e da simbolo spirituale alla preghiera.

Perché collegare il Nome al respiro? Come abbiamo visto, nella tradizione giudeo-cristiana, Dio è il soffio dell’uomo. Quando l’uomo respira, riceve una vita che gli viene data da un Altro. L’immagine della discesa della colomba – simbolo dello Spirito Santo – su Gesù al momento del battesimo è considerata nella tradizione cistercense come il bacio del Padre a suo Figlio. Nella respirazione, sì riceve il soffio del Padre. Se in quel momento, in questo respiro, si pronuncia il nome del Figlio, sono presenti il Padre, il Figlio e lo Spirito. Nel Vangelo di Giovanni si legge: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (Gv 14,23). La respirazione al ritmo dei nome di Gesù dà un senso particolare all’inspirazione. «La respirazione serve da supporto e da simbolo alla preghiera. “Il nome di Gesù è un profumo che si effonde” (cfr. Cantico dei cantici, 1,4). Il soffio di Gesù è spirituale, guarisce, scaccia i demoni, comunica lo Spirito Santo (Gv 20,22). Lo Spirito Santo è Soffio divino (Spiritus, spirare), spirazione di amore in seno al mistero trinitario. La respirazione di Gesù, come il battito del suo cuore, doveva essere incessantemente legata a questo mistero di amore, come pure ai sospiri della creatura (Mc 7,34 e 8,12) e alle “aspirazioni” che ogni cuore umano porta in sé. È lo Spirito stesso che prega per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)» (Serr J.).

Ci si potrebbe basare anche sul battito del cuore per ritmare la recitazione. E’ questa la tradizione più antica per la preghiera del cuore, ma ci rendiamo conto che ai nostri giorni, con gli attuati ritmi di vita, non abbiamo più il ritmo cardiaco che aveva il contadino o il monaco nella sua cella. Inoltre, bisogna fare attenzione a non concentrarsi esageratamente su quest’organo. Siamo molto spesso sotto pressione, dunque non è consigliabile pregare al ritmo dei battiti del cuore. Certe tecniche in rapporto con il ritmo del cuore possono essere pericolose. E’ meglio attenersi alla profonda tradizione del respiro, ritmo biologico fondamentale quanto quello del cuore e che ha anche il significato mistico di una comunione con una vita che è data e accolta nella respirazione. Negli Atti degli Apostoli san Paolo dice: «In lui viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28) Secondo questa tradizione noi siamo dunque creati ad ogni istante, siamo rinnovati; questa vita viene da lui e un modo di accoglierla è di respirare coscientemente.

Gregorio il Sinaita diceva: «Invece di respirare lo Spirito Santo, noi siamo riempiti dal respiro degli spiriti malvagi» (sono le cattive abitudini, le «passioni», tutto ciò che rende complicata la nostra vita quotidiana). Fissando la mente sulla respirazione (come abbiamo fatto finora), essa si quieta, e noi sentiamo una distensione fisica, psicologica, morale. «Respirando lo Spirito», nell’articolazione del Nome, possiamo trovare il riposo del cuore, e questo corrisponde al procedimento dell’esicasmo. Esichio di Batos scrive: «L’invocazione del nome di Gesù, quando è accompagnata da un desiderio pieno di dolcezza e di gioia, riempie il cuore di gioia e di serenità. Saremo allora ricolmi della dolcezza di sentire e di provare come un incanto questa esultanza beata, perché cammineremo nella hesychia del cuore con il dolce piacere e le delizie di cui essa riempie l’anima».

Ci si libera dall’agitazione del mondo esterno, si calma la dispersione, la diversità, la corsa frenetica, perché noi tutti siamo spesso sollecitati in maniera molto faticosa. Quando arriviamo, grazie a questa pratica, a una maggiore presenza a noi stessi, in profondità, cominciamo a sentirci bene con noi stessi, nel silenzio. Dopo un certo tempo, scopriamo che siamo con un Altro, perché amare è essere abitati e lasciarsi amare è lasciarsi abitare. Ritroviamo quello che dicevo a proposito della trasfigurazione: il cuore, la mente e il corpo ritrovano la loro unità originaria. Siamo presi nel movimento della metamorfosi, della trasfigurazione del nostro essere. E’ questo un tema caro all’ortodossia. Il nostro cuore, la nostra mente e il nostro corpo si quietano e trovano la loro unità in Dio.

CONSIGLI PRATICI – Trovare la distanza giusta
La nostra prima cura, quando ci fermiamo per imparare la «preghiera di Gesù», sarà di ricercare il silenzio della mente, di evitare ogni pensiero e fissarsi nelle profondità del cuore. Per questo il lavoro sul respiro è di grande aiuto.

Come sappiamo, servendoci delle parole: «Io mi lascio andare, io mi dono, io mi abbandono, io mi ricevo» il nostro scopo non è di arrivare alla vacuità come nella tradizione zen, per esempio. Si tratta di liberare uno spazio interiore nel quale possiamo fare l’esperienza di essere visitati e abitati. Questo procedimento non ha nulla di magico, è un’apertura del cuore a una presenza spirituale dentro di sé. Non è un esercizio meccanico o una tecnica psicosomatica; possiamo anche sostituire queste parole con la preghiera del cuore. Nel ritmo delta respirazione, si può dire nell’inspirazione: «Signore Gesù Cristo», e nell’espirazione: «Abbi pietà di me». In quel momento, io accolgo il respiro, la tenerezza, la misericordia che mi sono dati come un’unzione dello Spirito.

Scegliamo un luogo silenzioso, quietiamoci, invochiamo lo Spirito perché ci insegni a pregare. Possiamo immaginare il Signore vicino a noi o in noi, con la fiduciosa certezza che egli non ha altro desiderio che di colmarci delta sua pace. All’inizio, possiamo limitarci a una sillaba, a un nome: Abbà (Padre), Gesù, Effathà (apriti, rivolto a noi stessi), Marana-tha (vieni, Signore), Eccomi, Signore, ecc. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula, che deve essere breve. Giovanni Climaco consiglia: «che la vostra preghiera ignori ogni moltiplicazione: una sola parola è bastata al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono di Dio.. La prolissità nella preghiera riempie spesso di immagini e distrae, mentre spesso una sola parola (monologia) favorisce il raccoglimento”.

Prendiamola con calma sul ritmo della nostra respirazione. La ripetiamo in piedi, seduti o coricati, trattenendo il respiro per quanto è possibile, per non respirare a un ritmo troppo rapido. Se restiamo in apnea per un pò di tempo, la nostra respirazione rallenta. Diventa più distanziata, ma siamo ossigenati respirando attraverso il diaframma. Il respiro raggiunge allora un’ampiezza tale che si ha bisogno di respirare meno spesso. Inoltre, come scrive Teofane il Recluso: «Non preoccupatevi del numero delle preghiere da recitare. Abbiate cura unicamente che la preghiera scaturisca dal vostro cuore, zampillante come una sorgente di acqua viva. Allontanate completamente dalla vostra mente l’idea di quantità». Anche in questo caso, ciascuno deve trovare la formula che gli si addice: le parole da usare, il ritmo del respiro, la durata della recitazione. All’inizio, la recitazione sarà fatta oralmente; a poco a poco, non avremo più bisogno di pronunziarla con le labbra nè di utilizzare un rosario (qualsiasi rosario può andar bene, se non si ha quello fatto di nodi di lana). Un automatismo regolerà il movimento della respirazione; la preghiera si semplificherà e giungerà fino al nostro sub-conscio per pacificarlo. Il silenzio ci pervaderà dall’interno.

In questa respirazione del Nome, il nostro desiderio si esprime e si approfondisce; a poco a poco entriamo nella pace dell’hesychia. Situando la mente nel cuore – e possiamo localizzare un punto fisicamente, se questo ci aiuta, nel nostro petto, o nel nostro hara (cfr. tradizione zen) -, noi invochiamo il Signore Gesù incessantemente; cercando di fare in modo di allontanare tutto ciò che può distrarci. Quest’apprendimento richiede tempo e non bisogna cercare un risultato rapido. C’è dunque da fare uno sforzo per rimanere in una grande semplicità e in una grande povertà, accogliendo quello che viene dato. Ogni volta che le distrazioni ritornano, concentriamoci di nuovo sul respiro e sulla parola.

Quando avete preso questa abitudine, quando camminate, quando vi sedete, potete riprendere la vostra respirazione. Se a poco a poco questo nome di Dio, qualunque sia il nome che gli date, è associato al suo ritmo, sentirete che la pace e l’unità della vostra persona cresceranno. Quando qualcuno vi provoca, se provate un sentimento di collera o di aggressività, se sentite che state per non controllarvi più o se siete tentati di commettere atti che vanno contro le vostre convinzioni, riprendete la respirazione del Nome. Quando sentite un impulso interiore che si oppone all’amore e alla pace, questo sforzo di ritrovarvi nelle vostre profondità mediante il respiro, mediante la presenza a voi stessi, mediante la ripetizione del Nome, vi rende vigilanti e attenti al cuore. Questo vi può permettere di calmarvi, di ritardare la vostra risposta e di darvi il tempo di trovare la distanza giusta riguardo a un avvenimento, a voi stessi, a qualcun altro. Può essere un metodo molto concreto per placare i sentimenti negativi, che sono talvolta un veleno per la vostra serenità interiore e impediscono una relazione in profondità con gli altri.

LA PREGHIERA DI GESÙ
La preghiera di Gesù è chiamata preghiera del cuore perché, nella tradizione biblica, al livello del cuore si trova il centro dell’uomo e della sua spiritualità. Il cuore non è semplicemente l’affettività. Questa parola rimanda alla nostra identità profonda. Il cuore è anche il luogo della saggezza. Nella maggior parte delle tradizioni spirituali, esso rappresenta un luogo e un simbolo importanti; talvolta è collegato al tema della grotta o al fiore del loto, o alla cella interiore del tempio. A questo proposito, la tradizione ortodossa è particolarmente vicina alle fonti bibliche e semitiche. «Il cuore è il signore e il re di tutto l’organismo corporeo», dice Macario, e «quando la grazia si impadronisce dei pascoli del cuore, essa regna su tutte le membra e su tutti i pensieri; perché lì è l’intelligenza, lì si trovano i pensieri dell’anima, da lì essa attende il bene». In questa tradizione, il cuore è al «centro dell’essere umano, la radice delle facoltà dell’intelletto e della volontà, il punto da cui proviene e verso il quale converge tutta la vita spirituale. È la sorgente, oscura e profonda, da cui scaturisce tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo e mediante la quale questi è vicino e comunica con la Sorgente della vita». Dire che nella preghiera bisogna passare dalla testa al cuore, non significa che testa e cuore si oppongano. Nel cuore, c’è ugualmente il desiderio, la decisione, la scelta dell’azione. Nel linguaggio corrente, quando si dice che una persona è un uomo o una donna di gran cuore, si rimanda alla dimensione affettiva; ma quando si parla di «avere un cuor da leone» si accenna al coraggio e alla determinazione.

La preghiera di Gesù, con il suo aspetto respiratorio e spirituale, ha lo scopo di far «scendere la testa nel cuore»: si arriva così all’intelligenza del cuore. «E’ bene scendere dal cervello nel cuore – dice Teofane il Recluso -. Per il momento non ci sono in voi che riflessioni tutte cerebrali su Dio, ma Dio stesso rimane all’esterno». È stato detto che la conseguenza della rottura con Dio è una specie di disintegrazione della persona, una perdita dell’armonia interiore. Per riequilibrare la persona con tutte le sue dimensioni, il procedimento della preghiera del cuore mira a collegare la testa e il cuore, perché «i pensieri turbinano come fiocchi di neve o sciami di moscerini in estate». Possiamo quindi raggiungere una comprensione molto più profonda della realtà umana e spirituale.

L’illuminazione cristiana
Poiché pronunciare il nome di Gesù libera il suo soffio in noi, l’effetto più importante della preghiera del cuore è l’illuminazione, che non è una manifestazione sentita fisicamente, benché possa avere effetti sul corpo. Il cuore conoscerà il calore spirituale, la pace, la luce, così bene espresse nella liturgia ortodossa. Le Chiese d’Oriente sono decorate di icone, ciascuna con il suo lumicino che vi si riflette, segno di una presenza misteriosa. Mentre nella teologia mistica occidentale si è insistito, tra l’altro, sull’esperienza della notte oscura (con le tradizioni carmelitane, come quella di san Giovanni della Croce), in Oriente sono messe in risalto l’illuminazione, la luce della trasfigurazione. I santi ortodossi sono trasfigurati più che se ricevessero le stigmate (Nella tradizione cattolica alcuni santi come Francesco d’Assisi hanno ricevuto nella loro carne le tracce delle piaghe della crocifissione, unendosi così alla sofferenza del Cristo crocifisso). Si parla della luce taborica, perché sul monte Tabor, Gesù è stato trasfigurato. La crescita spirituale è un cammino di trasfigurazione progressiva. E’ la luce stessa di Dio che finisce col riflettersi sul viso dell’uomo. Per questo siamo chiamati a diventare noi stessi icone della tenerezza di Dio, sull’esempio di Gesù. Nella misura in cui ritroviamo la nostra sorgente nascosta, a poco a poco la luce interiore traspare nel nostro sguardo. C’è una grazia di commossa partecipazione che imprime una grande dolcezza nello sguardo e sul viso dei religiosi dell’Oriente.

È lo Spirito Santo che realizza l’unità della persona. Lo scopo ultimo della vita spirituale è la deificazione dell’essere umano secondo la tradizione ortodossa, vale a dire una trasformazione interiore che ristabilisce la somiglianza ferita dalla rottura con Dio. L’uomo diventa sempre più vicino a Dio, non con le sue forze, ma per la presenza dello Spirito che favorisce la preghiera del cuore. C’è una grande differenza tra le tecniche di meditazione, in cui si cerca di raggiungere un certo stato di coscienza attraverso sforzi personali, e un metodo di preghiera cristiana. Nel primo caso, il lavoro su se stessi – che è certamente necessario per ogni cammino spirituale – è realizzato unicamente da se stessi, eventualmente con un aiuto umano esterno, per esempio quello di un maestro. Nel secondo caso, anche se ci si ispira ad alcune tecniche, l’approccio è vissuto in uno spirito di apertura e di accoglienza a una Presenza trasformante. A poco a poco, grazie alla pratica della preghiera del cuore, l’uomo ritrova un’unità profonda. Quanta più si radica questa unità, tanto meglio egli può entrare nella comunione con Dio: è già un annuncio della risurrezione! Tuttavia, non bisogna farsi illusioni. Non c’è nulla di automatico né di immediato in questo procedimento. Non basta essere pazienti, è ugualmente importante accettare di essere purificati, vale a dire riconoscere le oscurità e le deviazioni in noi che impediscono l’accoglimento della grazia. La preghiera del cuore stimola un atteggiamento di umiltà e di pentimento che ne condiziona l’autenticità; è accompagnata da una volontà di discernimento e di vigilanza interiore. Di fronte alla bellezza e all’amore di Dio, l’uomo prende coscienza del suo peccato ed è invitato a incamminarsi sulla via della conversione.

Che cosa dice dell’energia divina questa tradizione? Il corpo può risentire anch’esso fin da ora gli effetti dell’illuminazione della risurrezione. Fra gli ortodossi esiste un dibattito sempre attuale a proposito delle energie. Sono create o increate? Sono l’effetto di un’azione diretta di Dio sull’uomo? Di quale natura è la deificazione? In che modo Dio, trascendente e inaccessibile nella sua essenza, potrebbe comunicare le sue grazie all’uomo, al punto di «deificarlo» con la sua azione? L’interesse dei nostri contemporanei per la questione dell’energia obbliga a soffermarsi brevemente su tale domanda. Gregorio Palamàs parla di una «partecipazione» a qualche cosa tra il cristiano e Dio. Questo qualcosa, sono le “energie” divine, paragonabili ai raggi del sole che apportano luce e calore, senza essere il sole nella sua essenza, e che noi tuttavia chiamiamo: sole. Sono queste energie divine che agiscono sul cuore per ricrearci a immagine e somiglianza. Con ciò, Dio si dona all’uomo senza cessare di essere trascendente a lui. Attraverso questa immagine, vediamo come, mediante un lavoro sul respiro e sulla ripetizione del Nome, possiamo accogliere l’energia divina e permettere che si realizzi progressivamente in noi una trasfigurazione dell’essere profondo.

Il Nome che guarisce
A proposito del pronunciare il Nome, è importante non porsi in un atteggiamento che rientrerebbe nell’ambito della magia. La nostra è una prospettiva di fede in un Dio che è il pastore del suo popolo e che non vuole perdere nessuna delle sue pecore. Chiamare Dio con il suo nome vuol dire aprirsi alla sua presenza e alla potenza del suo amore. Credere nella forza dell’evocazione del Nome, significa credere che Dio è presente nelle nostre profondità e aspetta solamente un segno da parte nostra per colmarci della grazia di cui abbiamo bisogno. Non dobbiamo dimenticare che la grazia è sempre offerta. Il problema viene da noi che non la chiediamo, non l’accogliamo, oppure non siamo capaci di riconoscerla quando essa opera nella nostra vita o in quella degli altri. La recitazione del Nome è dunque un atto di fede in un amore che non cessa di donarsi, un fuoco che non dice mai: «Basta!».

Adesso forse comprendiamo meglio come, oltre al lavoro che abbiamo iniziato sul corpo e il respiro, è possibile, per quelli che lo desiderano, introdurre la dimensione della ripetizione del Nome. Così, a poco a poco, lo Spirito si unisce alla nostra respirazione. In concreto, dopo un apprendimento più o meno lungo, quando abbiamo un momento di calma, quando camminiamo per strada o quando stiamo nella metropolitana, se entriamo nella respirazione profonda, spontaneamente, il nome di Gesù può visitarci e ricordarci chi siamo noi, figli diletti del Padre.

Attualmente, si ritiene che la preghiera del cuore possa sollecitare il subcosciente e attuare in esso una forma di liberazione. Infatti, lì giacciono dimenticate realtà cupe, difficili e angosciose. Quando questo Nome benedetto pervade il subcosciente, scaccia gli altri nomi, che sono forse distruttori per noi. Ciò non ha nulla di automatico e non sostituirà necessariamente un procedimento psicanalitico o psicoterapeutico; ma nella fede cristiana, questa visione dell’opera dello Spirito fa parte dell’incarnazione: nel cristianesimo, lo spirito e il corpo sono inseparabili. Grazie alla nostra comunione con Dio, che è relazione, pronunciare il suo Nome può liberarci dalle oscurità. Si legge nei Salmi che quando un povero grida, Dio risponde sempre (Sal 31,23; 72,12). E l’amata del Cantico dei Cantici dice: «Io dormivo, ma il mio cuore era desto» (Ct 5,2). Possiamo qui pensare all’immagine della mamma che dorme, ma sa che il suo bimbo non sta molto bene: lei si sveglierà al minimo gemito. È una presenza dello stesso genere che si può sperimentare nei momenti importanti della vita amorosa, della vita parentale, filiate. Se amare è essere abitati, lo stesso può dirsi anche per la relazione che Dio intrattiene con noi. Scoprirlo e viverne è una grazia da chiedere.

Quando prepariamo un incontro importante, ci pensiamo, ci predisponiamo ad esso, ma non possiamo assicurare che sarà un incontro riuscito. Ciò non dipende del tutto da noi, ma dipende anche dall’altro. Nell’incontro con Dio, quel che dipende da noi è preparare il nostro cuore. Anche se non conosciamo nè il giorno nè l’ora, la nostra fede ci assicura che l’Altro verrà. A tal fine è necessario che noi ci poniamo già in un approccio di fede, anche se è una fede ai primi passi. Avere l’audacia di sperare che effettivamente c’è qualcuno che viene a noi, anche se non sentiamo nulla! È un mettersi continuamente in presenza, cosi come respiriamo ad ogni istante, e il nostro cuore batte senza fermarsi. Il nostro cuore e il nostro respiro sono vitali per noi, così questo mettersi in presenza diventa vitale da un punto di vista spirituale. Progressivamente, tutto diventa vita, vita in Dio. Certamente, non lo sperimentiamo in permanenza, ma in certi momenti possiamo intuirlo Quei momenti ci incoraggiano, quando abbiamo l’impressione di perdere tempo nella preghiera, cosa che, senza dubbio, ci accade spesso…

Attendere l’inatteso
Noi possiamo attingere dalla nostra propria esperienza di relazione, dal ricordo dei nostri stupori davanti a ciò che abbiamo scoperto di bello in noi e negli altri. La nostra esperienza ci rivela l’importanza della capacità di riconoscere la bellezza sul nostro cammino. Per alcuni sarà la natura, per altri l’amicizia; in poche parole, tutto ciò che ci fa crescere e ci fa uscire dalla banalità, dal tran tran quotidiano. Attendere l’inatteso ed essere ancora capaci di meravigliarsi! «Attendo l’inatteso», mi diceva un giorno un giovane in cerca di vocazione, incontrato in un monastero: allora gli ho parlato del Dio delle sorprese. È un cammino che richiede tempo. Ricordiamoci che abbiamo detto che la risposta è già presente nel cammino stesso. Siamo tentati di porci la domanda: quando arriverò e quando avrò la risposta? L’importante è esserci messi in cammino, bevendo ai pozzi che incontriamo, pur sapendo che ci vorrà molto tempo per arrivare. L’orizzonte si allontana quando ci si avvicina alla montagna, ma c’è la gioia del cammino che accompagna l’aridità della fatica, c’è la vicinanza dei compagni di cordata. Non rimaniamo soli, siamo già rivolti verso la rivelazione che ci aspetta sulla vetta. Quando siamo consapevoli di questo, diventiamo pellegrini dell’assoluto, pellegrini di Dio, senza ricerca del risultato.

È molto difficile per noi occidentali non mirare all’efficacia immediata. Nel celebre libro indù Bhagavadgita, Krishna dice che bisogna lavorare senza desiderare il frutto della nostra fatica. I buddhisti aggiungono che bisognerebbe liberarsi dal desiderio che è illusione, per raggiungere l’illuminazione. Molto più tardi, in Occidente, nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyola insisterà sull’«indifferenza», che consiste per lui nel conservare una giusta libertà interiore riguardo a una decisione importante, finché il discernimento conferma la scelta opportuna. Tuttavia, come abbiamo visto, nel cristianesimo il desiderio rimane una realtà importante per il cammino spirituale. Esso unifica nell’impulso che ci fa uscire da noi stessi in direzione di una pienezza, e tutto questo in una grande povertà. Infatti, il desiderio ci produce un vuoto nell’anima, perché possiamo desiderare solo ciò che non abbiamo ancora, e dà il suo slancio alla speranza.

Questo ci aiuta a pensare «giusto», perché il nostro pensiero è anche un pensiero del cuore, e non soltanto un esercizio unicamente intellettuale. La rettitudine del pensiero illuminato dal cuore e gli stati del nostro cuore ci dicono qualcosa della rettitudine delle nostre relazioni. Lo vedremo presto nella tradizione ignaziana, quando parleremo della «mozione degli spiriti». Questa espressione di sant’Ignazio di Loyola è un altro modo di parlare degli stati del cuore, che ci dicono come noi viviamo la nostra relazione a Dio e agli altri. Noi occidentali viviamo soprattutto al livello dell’intelletto, della razionalità, e riduciamo talvolta il cuore all’emotività. Siamo allora tentati sia di neutralizzarlo, sia d’ignorarlo. Per alcuni di noi, quel che non si misura non esiste, ma questo è tuttavia in contraddizione con l’esperienza quotidiana, perché la qualità della relazione non si misura.

Nel mezzo della scissione dell’uomo, della dispersione causata dalla distrazione, la recitazione del Nome al ritmo della respirazione ci aiuta a ritrovare l’unità della testa, del corpo e del cuore. Questa preghiera continua può diventare veramente vitale per noi, nel senso che segue i nostri ritmi vitali. Vitale anche nel senso in cui, nei momenti nei quali la nostra vita è messa in discussione, minacciata, noi viviamo le esperienze più intense. Allora, possiamo chiamare il Signore con il suo Nome, renderlo presente e, a poco a poco, entrare nel movimento dell’illuminazione del cuore. Non siamo obbligati ad essere per questo dei grandi mistici. In certi momenti della nostra vita, possiamo scoprire che siamo amati in un modo assolutamente indescrivibile, che ci riempie di gioia. È questa una conferma di quel che c’è di più bello in noi e dell’esistenza dell’Essere amato; può durare soltanto pochi secondi, e diventare tuttavia come una pietra miliare sul nostro cammino. Se non c’è una causa precisa a questa gioia intensa, sant’Ignazio la chiama una «consolazione senza causa». Per esempio, quando non è una gioia che proviene da una buona notizia, da una promozione, da una gratificazione qualunque. Essa ci pervade all’improvviso, e questo è il segno che viene da Dio.

Pregare con prudenza e pazienza
La preghiera del cuore è stata oggetto di discussione e di sospetto a causa dei rischi di ripiegamento su se stessi e di illusione in quanto ai risultati. La ripetizione assidua di una formula può provocare una vera e propria vertigine. La concentrazione esagerata sulla respirazione o sul ritmo del cuore può determinare malessere in certe persone fragili. C’è anche il rischio di confondere la preghiera con il desiderio di prodezze. Non si tratta di forzare per arrivare a un automatismo o a una corrispondenza con un certo movimento biologico. Perciò, in origine, questa preghiera veniva insegnata soltanto oralmente e la persona era seguita da un padre spirituale. Ai giorni nostri, questa preghiera è di pubblico dominio; molti sono i libri che ne parlano e le persone che la praticano, senza un particolare accompagnamento. Ragione di più per non forzare nulla. Niente sarebbe più contrario al procedimento che il voler provocare un sentimento di illuminazione, confondendo l’esperienza spirituale di cui parla la Filocalia con una modificazione dello stato di coscienza. Non si deve trattare né di merito, nè di psicotecnica ricercata per se stessa. Questa maniera di pregare non è adatta a tutti. Essa esige una ripetizione e un esercizio quasi meccanico all’inizio, che scoraggia alcune persone. Inoltre, sorge un fenomeno di stanchezza, perché il progresso è lento e, talvolta, ci si può trovare davanti a un vero e proprio muro che paralizza lo sforzo. Non bisogna dichiararsi vinti, ma, anche in questo caso, si tratta di essere pazienti con se stessi. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula. Ricordo che il progresso spirituale non può essere raggiunto unicamente mediante la pratica di un metodo, qualunque esso sia, ma implica un atteggiamento di discernimento e di vigilanza nella vita quotidiana.

Aquila e Priscilla